Paolo Borsellino, un eroe dei nostri tempi

Era una Domenica come oggi, il 19 luglio di 28 anni fa. Due mesi dopo l’uccisione del suo migliore amico, il giudice Giovanni Falcone, toccò a lui: Paolo Borsellino. Sempre a Palermo, sempre per mano della mafia. Erano amici da ragazzi, Paolo e Giovanni. Avevano fatto l’Università insieme. Insieme erano entrati in Magistratura ed insieme erano arrivati alla Procura di Palermo, a lottare contro la mafia. Insieme istituirono il più grande processo penale del XX secolo: il maxi-processo a ‘Cosa nostra’, nell’aula bunker del carcere dell’ ‘Ucciardone’ di Palermo, arrivando a centinaia di condanne e molti ergastoli di mafiosi. Poi lo Stato li ha lasciati soli e alcuni apparati deviati, sempre dello Stato, li hanno addirittura ostacolati, facilitando la vendetta della mafia. E così sono caduti entrambi, assassinati tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, in meno di due mesi. Paolo quella domenica andò a trovare sua madre, come faceva sempre, ma ad attenderlo al portone di casa c’era una Fiat 126 imbottita di tritolo, che saltò in aria nel momento in cui il giudice suonò al citofono. Morirono sul colpo lui e i 5 agenti della scorta. Come è possibile che quell’auto si trovasse là senza alcun controllo delle forze dell’ordine, sapendo che vi abitava la madre di un Giudice minacciato di morte dalla mafia? Io parlo con cognizione di causa, perché ho fatto il servizio militare e sono andato in Sicilia per 2 mesi per la missione dell’Esercito denominata ‘Vespri siciliani’, nell’agosto del 1996, con il giubbotto anti-proiettile e il fucile mitragliatore a piantonare le case dei magistrati che erano stati minacciati dalla mafia. Ogni volta che si fermava una macchina, noi militari andavamo col fucile, in caccia, ad intimare di andarsene subito da lì. Per cui nessun automezzo poteva parcheggiare intorno all’abitazione del magistrato. Lo stesso giudice Borsellino aveva chiesto più volte, fino a 15 giorni prima della sua morte, di ‘bonificare’ la zona della casa di sua madre. E invece quella domenica, una Fiat 126 piena di esplosivo, stava tranquillamente sotto la casa di sua madre, pronta ad esplodere. Mi sento di chiudere questo ricordo con le parole di un Santo, Papa Giovanni Paolo II, rivolte ai mafiosi in occasione del funerale in Sicilia di un altro giudice ammazzato l’anno dopo, Rosario Livatino, parole che io desidero estendere anche agli apparati deviati dello Stato. Il Papa tuonò: “Pentitevi, verrà il giorno del Giudizio di Dio!” puntando il suo indice accusatorio. Paolo Borsellino, due giorni prima di morire, chiese al suo parroco – che lo ha dichiarato molti anni dopo in un’intervista – di andarlo a trovare in Tribunale per confessarlo. Era venerdì pomeriggio, ed Il prete non ne capiva la necessità, ma Borsellino aveva capito che non aveva più tempo, e che non sarebbe arrivato al lunedì successivo per andare in Chiesa. Era una Domenica come oggi, il 19 luglio di 28 anni fa. Due mesi dopo l’uccisione del suo migliore amico, il giudice Giovanni Falcone, toccò a lui: Paolo Borsellino. Sempre a Palermo, sempre per mano della mafia. Erano amici da ragazzi, Paolo e Giovanni. Avevano fatto l’Università insieme. Insieme erano entrati in Magistratura ed insieme erano arrivati alla Procura di Palermo, a lottare contro la mafia. Insieme istituirono il più grande processo penale del XX secolo: il maxi-processo a ‘Cosa nostra’, nell’aula bunker del carcere dell’ ‘Ucciardone’ di Palermo, arrivando a centinaia di condanne e molti ergastoli di mafiosi. Poi lo Stato li ha lasciati soli e alcuni apparati deviati, sempre dello Stato, li hanno addirittura ostacolati, facilitando la vendetta della mafia. E così sono caduti entrambi, assassinati tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992, in meno di due mesi. Paolo quella domenica andò a trovare sua madre, come faceva sempre, ma ad attenderlo al portone di casa c’era una Fiat 126 imbottita di tritolo, che saltò in aria nel momento in cui il giudice suonò al citofono. Morirono sul colpo lui e i 5 agenti della scorta. Come è possibile che quell’auto si trovasse là senza alcun controllo delle forze dell’ordine, sapendo che vi abitava la madre di un Giudice minacciato di morte dalla mafia? Io parlo con cognizione di causa, perché ho fatto il servizio militare e sono andato in Sicilia per 2 mesi per la missione dell’Esercito denominata ‘Vespri siciliani’, nell’agosto del 1996, con il giubbotto anti-proiettile e il fucile mitragliatore a piantonare le case dei magistrati che erano stati minacciati dalla mafia. Ogni volta che si fermava una macchina, noi militari andavamo col fucile, in caccia, ad intimare di andarsene subito da lì. Per cui nessun automezzo poteva parcheggiare intorno all’abitazione del magistrato. Lo stesso giudice Borsellino aveva chiesto più volte, fino a 15 giorni prima della sua morte, di ‘bonificare’ la zona della casa di sua madre. E invece quella domenica, una Fiat 126 piena di esplosivo, stava tranquillamente sotto la casa di sua madre, pronta ad esplodere. Mi sento di chiudere questo ricordo con le parole di un Santo, Papa Giovanni Paolo II, rivolte ai mafiosi in occasione del funerale in Sicilia di un altro giudice ammazzato l’anno dopo, Rosario Livatino, parole che io desidero estendere anche agli apparati deviati dello Stato. Il Papa tuonò: “Pentitevi, verrà il giorno del Giudizio di Dio!” puntando il suo indice accusatorio. Paolo Borsellino, due giorni prima di morire, chiese al suo parroco – che lo ha dichiarato molti anni dopo in un’intervista – di andarlo a trovare in Tribunale per confessarlo. Era venerdì pomeriggio, ed Il prete non ne capiva la necessità, ma Borsellino aveva capito che non aveva più tempo, e che non sarebbe arrivato al lunedì successivo per andare in Chiesa.