Il politicamente corretto

di Sergio Fanti

Il politicamente corretto ha una storia di quasi un secolo sulla quale in futuro mi piacerà documentarmi. Oggi parlo solo dei miei ricordi in proposito, che coincidono con l’accelerazione che il “politicamente corretto” ha avuto da metà anni ’80 circa fino ai giorni nostri. A metà anni ’80 alcune parole di uso corrente venivano sostituite da strane perifrasi e diciture. Il cieco diventava “non vedente”, il sordo “non udente”, quello che fino ad allora si chiamava “handicappato” diventava “diversamente abile”. Chiaramente queste diciture si trovavano nei linguaggi istituzionali e in quelli giornalistici, noi pubblico, noi gente faticavamo ad applicarle, e ci facevamo anche un po’ di ironia. Ma ricordo che fin da subito mi era sembrata una cosa giusta e con nobili intenti. Ad esempio, lo spazzino diventava operatore ecologico, il contadino diventava agricoltore: in questo cambio cadeva quell’implicito disprezzo che recava la parola “spazzino” quasi a indicare un essere miserevole, e questo atteggiamento era comune ai lavori che da un lato sono i più umili, dall’altro sono fondamentali per il benessere della società. In questo ho conservato una visione poco elevata, e continuo a considerare un pulitore di cessi più importante di un disegnatore di moda.

politicamente corretto soveratoweb
foto tratta da soveratoweb.com

Alcune cose invece ancora non le ho capite. Si era sempre detto “negro”, improvvisamente bisognava dire “nero”, da cui inevitabilmente scurettino, abbronzato, e una deriva di diciture caricaturali. Ormai ci siamo abituati a dire nero, tuttavia stiamo sfociando in eccessi da barzelletta, come quando – recentemente – una ditta dolciaria ha dovuto cambiare lo storico nome di alcuni suoi dolci che da sempre si chiamano “moretti”. E spesso, espressioni innocenti sono tacciate di razzismo, omofobia e altro.

Capisco bene che le parole non sono soltanto suoni, e che oltre ai significati ufficiali portano in sé sottintesi, ma davvero, stiamo giungendo a un punto in cui non si può più dire nulla. E occorre allora cambiare gran parte del nostro patrimonio culturale, occorre modificarlo perché trasmette messaggi poco raccomandabili. Non solo un titolo come “Angeli negri” (storica canzone-preghiera) andrebbe cambiato, ma anche intere trame di romanzi e opere teatrali. Un paio di anni fa al “Maggio fiorentino” è stata rappresentata una “Carmen” col finale cambiato: non muore più Carmen ad opera di una pugnalata di don Josè, ma muore don Josè, al quale Carmen spara. E l’opera finisce così.

Perché? perché bisogna evitare di rappresentare la violenza sulle donne. E qui ci sarebbe da parlare per giorni, perché allora ogni qual volta si parla di amore e di possesso bisognerebbe cambiare qualcosa se non tutto. Anzi, faremmo prima a buttare via tutto il nostro melodramma, che è venato di tragicità e di vicende amorose poco equilibrate. E allora mi sono ricordato di una vecchia canzone di un giovane Riccardo Cocciante, una canzoncina che ebbe un discreto successo e che fu replicata nei concerti per una quindicina d’anni. Si chiama “Il tagliacarte” ed è la storia di quello che oggi chiameremmo un “femminicidio”: in sostanza, l’amante deluso si allontana dalla vita di lei uccidendola. La si ascoltava e la si canticchiava (anche le ragazze) alla pari delle altre canzoni d’amore, senza immaginare che stavamo inneggiando a un crimine. E qui si aprirebbe una finestra molto interessante: se l’arte debba veicolare solo messaggi di regime (appunto “corretti”, una sorta di bugiardino contenente indicazioni di comportamento) o possa invece raccontare trame diverse e problematiche,  se ben raccontate, secondo principi di bellezza. Temo che tra un po’ non si potrà più concludere che Margherita adesso è mia.

Tornando un attimo alla Carmen del Maggio fiorentino: la sera della prima, la pistola con la quale Carmen doveva uccidere don Josè non ha funzionato! Insomma, è stato tutto ridicolo.