A volte, durante una discussione su dove e come va il mondo, succede di imbattersi in qualcuno che sospira, con aria nostalgica mista a un malcelato senso di superiorità: “Però ai miei tempi!”
Oltre che allontanarci dalla realtà, tali espressioni hanno un difetto ancora più grave: hanno tutto il sapore dell’autoassoluzione, un modo per negare le responsabilità individuali e collettive delle azioni che hanno generato il presente.
La mia generazione, per intenderci quella che ha attraversato la tempesta degli anni ’70, ha vissuto un’età contrassegnata da forti ideologie che, nel bene e nel male, hanno temprato il carattere di molti giovani che trovavano in esse il modo di dare un senso alle loro esistenze.
Le ideologie erano la cornice entro la quale la realtà diventava comprensibile. Erano delle lenti, ma contrariamente a quello che si pensa, delle lenti indispensabili. Oggi come allora, per evitare che diventino lenti deformanti è necessario usarle con duttilità affinché il pensiero non si fossilizzi in schemi concettuali rigidi che impediscano di cogliere i cambiamenti che intervengono nella società. Quella che rimane invariata è, allora, la Weltanschauung, la propria concezione del mondo, lo zoccolo duro che rende possibile distinguere tra chi crede in un modello di società diverso da quello che si è realizzato, e che lotta per una società più giusta, basata sull’uguaglianza, e chi difende l’idea che il mondo debba necessariamente e ineluttabilmente essere un campo di battaglia in cui vincono i più forti.
Nel momento in cui si è dichiarata la morte delle ideologie, dichiarazione fallace in quanto funzionale ad una visione del mondo appiattita sull’esistenza di un unico modello di sviluppo, è venuta meno la possibilità di attribuire un senso agli accadimenti della vita, sia individuali che sociali.
Purtroppo nessuno di noi si è sottratto con convinzione a questa operazione, contribuendo a generare un senso di disagio e di frustrazione nelle generazioni successive, che hanno scambiato il modello di società proposto dall’ideologia neoliberista, come il modello che incarna alla perfezione gli ideali di libertà.
Il vuoto valoriale era ed è funzionale a chi predica l’inutilità delle contrapposizioni, dei conflitti. Il mondo sembra ormai pacificato all’insegna del consumismo e della competizione individuale, unico conflitto riconosciuto come utile alla società. Siamo in presenza di una forma di neocorporativismo, in cui a ciascuno si chiede di collaborare in nome di un valore superiore che non è più lo Stato o la Patria, ma la conservazione di un sistema contrabbandato come unico garante della libertà.
È chiaro che il problema investe in pieno la dimensione educativa e con essa, quindi, i genitori e gli insegnanti. L’illusione che la lotta al principio di autorità fosse la premessa per la realizzazione del regno della libertà è stato alla base di un gioco delle parti che ha avuto come indesiderato esito il ricorso a strategie autoritarie che hanno avvelenato le acque del rapporto adulti-giovani.
Siamo al confine tra psicologia, sociologia e politica. Il tema infatti si sviluppa nell’intreccio di diverse componenti che chiamano in causa sia la dimensione dello sviluppo della persona sia il modo in cui la famiglia, la società e la politica rispondono alle richieste del preadolescente e dell’adolescente.
Il saggio L’epoca delle passioni tristi di M. Benasayag e G. Schmit illustra perfettamente l’equivoco di fondo che ha fatto sì che questo rapporto degenerasse. Con l’espressione passioni tristi il filosofo B. Spinoza, scrivono i due studiosi, “non si riferiva alla tristezza del pianto, ma all’impotenza e alla disgregazione”.(1)
E più avanti, nel tentativo di spiegare la deriva autoritaria caratteristica dei nostri tempi, chiariscono:
Questa società, infatti, oscilla costantemente tra due tentazioni: quella della coercizione e quella della seduzione di tipo commerciale. Così alcuni insegnanti cercano a volte di ottenere l’attenzione dei loro allievi mediante astuzie e tecniche di seduzione, perché la sola idea di dire “Mi devi ascoltare e rispettare semplicemente perché io sono responsabile di questa relazione” sembra ormai inammissibile. In nome della presunta libertà individuale, l’allievo o il giovane assumono il ruolo di clienti che accettano o rifiutano ciò che “l’adulto venditore” propone loro. E quando questa strategia fallisce, non rimane altra via d’uscita che quella di ricorrere alla coercizione o alla forza bruta.(2)
Ed eccoci qui a leccarci le ferite, a urlare al vento e a colpevolizzare le nuove generazioni, composte da giovani che, con colpevole superficialità, definiamo debosciati, fragili, ignoranti, incapaci di analizzare criticamente la realtà e, con una disonesta operazione di scaricabarile, ci chiamiamo fuori e addebitiamo a chissà chi la causa di tutto questo, liquidando la questione con il leitmotiv “sì, però ai miei tempi”. Dove eravamo noi insegnanti, dove eravamo noi genitori quando a poco a poco abbiamo ceduto alle lusinghe di una società che ti riconosce solo se, come consumatore, contribuisci a tenere in vita un sistema in cui tutto ha un prezzo e niente più valore?
Nella società delle merci in cui il valore delle cose si misura in denaro, anche gli affetti hanno subito questa deriva, cosicché i genitori hanno pensato di potersi guadagnare l’affetto dei figli regalando gli oggetti dei loro desideri quali il motore, la vacanza, l’ultimo modello di cellulare, credendoli sostitutivi del tempo che avrebbero dovuto loro dedicare. La funzione strettamente educativa veniva, nel frattempo, demandata all’istituzione scolastica che però aveva le mani legate in quanto i genitori assumevano comportamenti di intransigente difesa dei figli, giungendo, e questa è storia di oggi, a picchiare gli insegnanti che li “osano” rimproverare.
Molto più onesto sarebbe ammettere che siamo stati a guardare alla finestra un mondo che andava esattamente dalla parte opposta a quella declamata, e che ci siamo trastullati in raffinate analisi e distinguo accademici incapaci di incidere sulla realtà delle cose, mentre qualcuno stava lavorando a produrre una insulsa marmellata che tutti stiamo mangiando, cercando di convincerci, con raffinata tecnica mimetica, di stare gustando un piatto prelibatissimo.
1. M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, p. 21, Feltrinelli
2. Ivi, p. 27