Oggi più che mai ci sarebbe bisogno di posizionarsi. “Odio gli indifferenti” o “Qui non si fa politica”?
Purtroppo, oggi, sembra prevalere la seconda opzione. E non solo fra i giovani, che almeno hanno l’alibi di essere stati blanditi da una generazione che, più che insegnare a riflettere ha insegnato a consumare, rendendo un ottimo servizio ad un sistema che non si aspettava tanta grazia, considerato che il ’68 sembrava promettere sconquassi. E, invece…
Mi rivolgo a chi ha il dovere sociale di parlare chiaro ai giovani e spiegare, dati alla mano, senza ideologie di copertura, i reali rapporti vigenti nella nostra società. Parlo agli insegnanti, a chi come me si trova ad affrontare questo stato di torpore che se da un lato ci fa tanto arrabbiare dall’altro ci sollecita ad intervenire per salvare il salvabile, operazione per niente facile, che ci obbliga ad una battaglia quotidiana contro la logica aziendale della scuola che non aiuta a sviluppare personalità libere, mentre, con la bava alla bocca, si ciancia di creatività e pensiero critico. Pura ipocrisia. Tutti mentiamo, sapendo di mentire, perché, come autorevolmente ci ricordano emeriti pedagogisti, sviluppare queste caratteristiche significherebbe, per il pensiero neoliberista, tagliare il ramo su cui è comodamente appollaiato.
Chi vive dentro il mondo della scuola non può non provare un moto di stizza, quando, persino i ministri dell’istruzione che si lamentano del cattivo funzionamento del mondo della scuola o della dispersione scolastica, dalla scuola elementare fino ad arrivare all’università, sono i primi a non opporsi, in occasione delle manovre economico-finanziarie, alla logica dei tagli, o quando il mondo imprenditoriale ha lasciato che si perpetrasse l’ennesimo schiaffo al mondo dell’istruzione con un documento quale la “Buona scuola”, che qualcuno, a ragione, ha ribattezzato una “Scuola alla buona”.
Questa critica non vuole essere una condanna senza appello al rapporto scuola-mondo del lavoro, rapporto che non si può escludere a priori, ma soltanto il voler riportare la scuola nel suo alveo naturale, quello, cioè della formazione integrale della persona, anziché sbilanciarla a tutto vantaggio del mercato.
“Scuola e lavoretto, precario perfetto”, dunque, perché, ormai, a molti giovani è rimasta solo la “gig economy”, formula magica per occultare, in stile british, la precarizzazione generalizzata del lavoro. La “gig economy” o “economia dei lavoretti”, infatti, rispecchia la mentalità per cui l’uomo è bene che rimanga un eterno bambino, buono solo a consumare, cui non è concesso di diventare adulto. E poi, a questi giovani disperati tocca anche sopportare i “competenti” lamentarsi del fatto che questi viziati bamboccioni, questi choosy, non crescono mai. Altro che “cittadinanza attiva”!
Ed allora, “Che fare”?
Premesso che non esistono formule bell’e pronte, ciò che una società veramente democratica dovrebbe auspicare è recuperare la dimensione etico-sociale del processo educativo, anziché inseguire i falsi miti neoliberisti che pretendono di permeare tutti gli aspetti della vita sociale, spacciando per interesse della collettività biechi interessi di bottega, una bottega, purtroppo, senza concorrenza.
È possibile sottrarsi a queste logiche?
Solo un cambiamento di paradigma pedagogico che metta al centro la crescita di soggetti-persona, educati a pensare, potrebbe riuscire in questa titanica impresa. Ma, sempre più spesso mi trovo a chiedermi se la scuola italiana sia davvero mai uscita dalla logica classista che ha presieduto alla Riforma Gentile. Forse, c’è stato un momento in cui sembrava che ci fosse una reale volontà politica di realizzare una scuola veramente democratica, con interventi che hanno fatto ben sperare, grazie anche alla spinta di figure come Don Milani (non se ne abbia a male il sociologo Ricolfi, che in un suo recente saggio ha accusato la scuola italiana di “donmilanismo”, termine usato con un chiaro intento, a dir poco, polemico), ma, complice la morte delle utopie, la cui fine è stata caparbiamente perseguita dai sacerdoti del pensiero unico, siamo ripiombati in una realtà difficile da modificare, perché fondata su principi sicuramente condivisibili (vedi Agenda 2030), ma senza la volontà politica di tradurli in vita democratica vissuta. D’altra parte, chiedere a un sistema, che ha posto il profitto e il consumo a fondamento della società, di valorizzare l’essere al posto dell’avere, è come chiedere al conte Dracula di dissetarsi con una aromatica tisana!