di Sergio Fanti
Quest’anno ricorre il settantesimo della morte di Cesare Pavese, si grande scrittore piemontese morto suicida in una camera d’albergo.
Celeberrimo il suo diario “Il mestiere di vivere”, nel quale sono raccolte molte riflessioni sulla vita, sulla scrittura, sulle donne, sulla guerra, e sul doloroso non-senso della vita.
Ma qui vogliamo accennare a un romanzo in particolare, ambientato nel tempo della seconda guerra mondiale. “La casa in collina” è uno di suoi più famosi romanzi, uscito immediatamente dopo la guerra.
Tralasciando la trama, recuperabile ovunque, è interessante notare come – in questo racconto della resistenza – la guerra non si svolga nel campo di battaglia, ma nell’anima del protagonista. E’ facile supporre che, parlando di Corrado, Pavese scriva di sé, delle sue ambivalenze, delle sue inquietudini indecise. Delle sue irrisoluzioni amorose. Della lotta al fascismo ma anche della comodità della vigliaccheria.
Corrado ha vissuto la resistenza da rifugiato, ma con dissidi interiori laceranti. Si è rivisto nel giovane Dino, figlio di una sua fiamma. E alla fine è rimasto solo, assillato dal peso della guerra: “ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. E a chiedersi che senso abbia tutto questo, chiudendo il romanzo con una frase secca: “Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”.