Il Premio Nobel per l’economia del 2019 è stato assegnato a due studiosi per l’approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale. Niente di male direte voi. A me, invece, qualche perplessità l’ha suscitata.
Mi sono chiesto in quale misura questo prestigioso riconoscimento serve a modificare la realtà delle cose. Molto ingenuamente, infatti, ho pensato che, mentre, per esempio, nel caso dei premi Nobel per la medicina i risultati cui pervengono gli scienziati hanno una ricaduta, più o meno immediata, sulla vita delle persone, queste teorie economiche continuano a lasciare pressoché inalterate le situazioni di povertà presenti nel mondo. Chi decide le sorti dell’economia mondiale non sembra avere molta voglia di emendare un sistema economico che, dati alla mano, produce povertà.
L’impressione finale, pertanto, è che questi studi non vanno ad intaccare i principi neoliberisti che regolano il mercato, principi che si sono insinuati nei gangli delle istituzioni, secondo la logica ordoliberista, grazie alla complicità di una classe politica asservita ai diktat della grande finanza mondiale e di cui le politiche economiche dell’Europa rappresentano la logica realizzazione. Sono convinto che le micro-soluzioni prospettate da questi due studiosi, finiscono col fare il gioco del nemico, o presunto tale. Non si intende, con ciò, negare valore a quelle iniziative che riescono, comunque, ad aiutare popolazioni che vivono al di sotto della soglia di povertà. Si constata soltanto che, lasciando immutato il quadro generale, ovvero il paradigma economico neoliberista, ci sono ben poche speranze che si realizzi quello che questi economisti, almeno a parole, vorrebbero, ossia eliminare la povertà nel mondo. La logica dei piccoli passi sembra non funzionare, anche perché mentre si attivano questi esperimenti, parallelamente si vanno sempre più affermando forme di sfruttamento che si vorrebbe far passare inosservati, come ad esempio, il land grabbing. La formazione neoliberista di questi economisti diventa una gabbia che impedisce loro di sviluppare un modello di sviluppo diverso grazie al quale, pur restando all’interno della logica di mercato, si possano introdurre limitazioni all’accumulazione della ricchezza, politiche fiscali più eque che colpiscano i patrimoni, ridimensionando il processo di finanziarizzazione dell’economia e procedendo ad una più equa redistribuzione della ricchezza. E allora, come interpretare questi riconoscimenti?
In realtà, gli esperimenti per ridurre la povertà contengono un non insignificante particolare. Essi sono realizzati su una così bassa scala da lasciare inalterato il problema nella sua dimensione globale.
I riconoscimenti di cui vengono insigniti questi economisti che si occupano della lotta alla povertà vanno, a mio parere, inseriti in quello che viene, a ragione, definito liberismo compassionevole, confinante con il cosiddetto filantrocapitalismo.
Siamo in presenza dei classici “pannicelli caldi” che lasciano invariate le disuguaglianze esistenti, e, al tempo stesso, consentono a chi ha in mano le leve del potere economico-politico di presentarsi come benefattori dell’umanità. Questi “buoni” si assumono il compito di alleviare la sofferenza dell’umanità bisognosa mantenendo, però, intatti i rapporti di forza all’interno della società e reiterando scelte di tipo neocoloniale, contrabbandate come interventi miranti a ridurre la forbice tra la povertà e la ricchezza.