È incredibile come la grande letteratura riesca a cogliere stati d’animo e comportamenti che rivelano, in modo inaspettato, modi di sentire propri dell’uomo e che rappresentano dei veri e propri archetipi. La storia di “Bartleby lo scrivano”, scritta a metà del XIX secolo da Melville, l’autore di Moby Dick, dapprima ti sorprende. Non c’è alcun motivo per cui Bartleby debba rifiutarsi di rispondere alle legittime richieste del suo datore di lavoro: “Preferirei di no!” si ostina a ripetere al suo padrone che gli chiede di fare il lavoro per cui è pagato: copiare documenti.
Perché Bartleby si comporta così? Quale senso va attribuito ai suoi continui “preferirei di no”?
Forse dietro questa “assurda” presa di posizione si cela il rifiuto del sistema in cui si trova imprigionato.
Forse è l’unica e più potente forma di protesta contro la volontà di chi governa le nostre vite.
“Preferirei di no”.
Bartleby sa bene che la pagherà cara, ma a fronte del suo rifiuto sta la rabbia del suo datore di lavoro, al punto che non capisci più chi veramente dei due stia peggio. Finisci col parteggiare per Bartleby per via di quell’inconscio desiderio di far saltare i vincoli, a volte insopportabili, che ci legano a chi ci comanda e decide il corso delle nostre esistenze.
“Preferirei di no”, continua a ripetere Bartleby.
Dietro la sua apparente mitezza si nasconde, forse, la rabbia e la consapevolezza che il modo migliore per lottare è il rifiuto delle regole che ti vengono imposte da un potere che assume le sembianze di un capoufficio o un dirigente che crede di avere la tua vita nelle sue mani. O, peggio, e questa è storia di oggi, del potere che lo stato esercita sulla vita biologica delle persone, dalla nascita in poi e che, in questo nostro tempo, stiamo tutti sperimentando in una forma che non ha precedenti.
Ma ciò che rende stupefacente questo racconto è la sua attualità. In un mondo in cui l’efficienza e la produttività sono diventati il criterio di misura di ogni azione umana, la caparbietà con cui Bartleby rifiuta i comandi del suo datore di lavoro, ci appare come la giusta risposta al processo di disumanizzazione in atto nella nostra società, ormai rassegnata a diventare sempre più schiava della tecnica che da mezzo è diventata il fine a cui gli uomini si sono piegati.
E la conclusione del racconto appare ancor più attuale, in un momento storico fortemente caratterizzato dalla tendenza a criminalizzare qualunque forma di dissenso.
È questa la potenza della letteratura: riuscire a svelarci dell’uomo ciò che la scienza non può svelarci: quelle pieghe dell’animo umano dove la ragione non può arrivare perché non possiede le parole per esprimerne il senso, parole che solo i grandi scrittori posseggono.