Si dice che un classico è tale se, nonostante il tempo, esso continua a parlare agli uomini. La definizione più calzante l’ha, sicuramente, data Italo Calvino con queste poche ma efficaci parole: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Le emozioni e le riflessioni che esso suscita non sono legate al tempo in cui esso è stato concepito e scritto, attraversano i secoli e continuano a provocare in noi stati d’animo talora contrastanti, usando un linguaggio universale, quello delle paure ancestrali o delle colpe inespiabili, della vita e della morte e dell’amore, in tutte le sue declinazioni, della meraviglia di fronte alla natura, o delle crisi interiori e del dolore.
La potenza della parola letteraria, però, non si manifesta naturalmente, per essere compresa necessita di essere educata, e questo rappresenta il vero ostacolo. Infatti la scuola, nella sua attuale versione confindustriale, quella scuola così tanto osannata a parole quale luogo di formazione per eccellenza, si arresta laddove dovrebbe osare e spingere i bambini e i giovani a lasciarsi trasportare da questa potenza, per percorrere i sentieri inediti della parola, per comprendere che quella è la nostra casa, che abitiamo dall’inizio alla fine dei nostri giorni. E invece, tra mille rivoli si disperde l’altra potenza, quella rappresentata dal miracolo della relazione maestro-discente, che troppo presto è stata ridotta a questione tecnica, ad un’arida trasmissione di informazioni, priva di quella passione che dovrebbe animare questo incontro, quell’eros ben descritto da M. Recalcati nel saggio L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento.
E giù con improbabili tassonomie, con, spesso, inconcludenti analisi del testo, questionari a risposta multipla, aperta e a riempimento, che da strumenti di accertamento divengono il fine di quello che dovrebbe essere un nobile mestiere, lasciando finire in un binario morto il mondo interiore cui, a parole, tutti sembriamo interessati.
È la scuola delle competenze, neanche buona a formare futuri lavoratori, in un mondo in cui il lavoro è, per i più, sinonimo di precarietà e fonte di ansia, se non di disperazione.
Nell’affrontare la difficoltà di una tale relazione si è ceduto alla facile indulgenza, evitando accuratamente di focalizzare l’interesse sul processo di maturazione, privilegiando i risultati oggettivamente valutabili, atteggiamento proprio di una cultura attenta all’efficienza, in cui la tecnica ha preso il sopravvento su tutto. Chi vive dentro il mondo della scuola ha assistito impotente all’ennesima ubriacatura che ciclicamente lo colpisce, a partire dal secolo scorso quando con le macchine per insegnare si pensava di potere, in prospettiva, sostituire la figura dell’insegnante, almeno nella forma in cui l’abbiamo sempre conosciuta. Poi arrivarono le tassonomie e giù giù fino alla scuola delle competenze che, in buona parte, continua ad ispirare l’attività di tanti insegnanti, inconsapevoli di aderire ad un’idea di scuola succube della concezione secondo la quale, oggi, è indispensabile privilegiare il rapporto col mondo del lavoro, rapporto sicuramente da curare ma non sino al punto da fare della scuola una sua ancella.
Si sta raccogliendo così il frutto avvelenato di riforme che mai hanno messo al centro il soggetto in fase di sviluppo, in un crescendo di ipocrisia collettiva nella quale quasi tutti siamo caduti, e che alcuni hanno cercato di fermare, ricercando quella autenticità ormai scomparsa dall’orizzonte della nostra cultura.
E i classici, allora? I classici possono attendere…