Le Interviste di Marta Lock – Antonio Servillo, in bilico tra visione onirica e immagin

Antonio Servillo è un artista napoletano di nascita ma romano d’adozione di grande talento artistico, esponente di spicco dell’Associazione Cento Pittori di via Margutta e dotato di una grande sensibilità che lo induce a narrare su tela un mondo interiore, immaginario ma anche onirico pur restando fortemente legato a temi attuali, terreni, concreti, che può liberare solo nel momento della creazione di un’opera. Il suo Surrealismo è affascinante e denso di simboli, di collegamenti con la letteratura utopica del Novecento di George Orwell e le ricerche psicologiche di Gustav Jung e Sigmund Freud che hanno creato le basi di un movimento che non può fare a meno di indurre l’osservatore a riflettere sulla natura umana. Riservato e spontaneo affida alle sue tele il compito di raccontare sogni e previsioni inconsce di un potenziale mondo che verrà. Antonio, come e quando ha avuto il suo primo incontro con l’arte? L’incontro con l’arte è avvenuto da bambino, in modo istintivo disegnavo gli eventi e i piccoli momenti quotidiani della mia vita, in pratica avveniva un fatto che colpiva la mia attenzione e io mi mettevo al lavoro per fermare il momento. Ricordo di aver disegnato anche mio padre mentre usciva di casa per andare a lavorare. A scuola scambiavo con i miei compagni di classe i miei lavori in cambio di matite, gomme o le merendine; la maestra, colpita da questa mia inclinazione naturale mi chiese un giorno di eseguire un disegno a piacere ed io scelsi di rappresentare Cappuccetto Rosso. L’insegnante fu talmente colpita dal risultato che realizzai estemporaneamente, da portarmi nelle altre classi per mostrare il mio talento, convinta che un giorno sarei diventato un artista; la sua fiducia nelle mie capacità fu molto importante per me e mi incoraggiò a credere in me stesso e nel mio sogno. Quali sono stati gli artisti del passato che l’hanno ispirata e perché? Inizialmente sono stato affascinato dalle personalità eccentriche e sopra gli schemi di Hieronymus Bosch, pittore fiammingo noto per le sue opere enigmatiche e inquietanti che in qualche modo lo hanno reso anticipatore delle tematiche surrealiste, e Salvador Dalì, padre nonché simbolo del Surrealismo; solo in un secondo tempo ho sentito l’impulso di approfondire la conoscenza di questi due maestri, studiandone l’arte per entrare al dentro del loro stile, del loro intento artistico, delle loro basi pittoriche per trarre ispirazione e dar vita a un mio percorso personale che in qualche modo sentivo vicino nell’intenzione e nel modo onirico di approcciare la realtà immaginaria che non posso fare a meno di narrare nelle mie tele. Il suo stile infatti è marcatamente surrealista, cos’è che l’ha portata ad avvicinarsi e scegliere questo tipo di espressione creativa? Il desiderio irrefrenabile di trasformare le mie visioni in emozioni dipinte su tela per giungere alla mia realtà; tutto nei miei dipinti è interiorizzato, è frutto di collegamenti istintivi del mio inconscio che si attivano durante i sogni. E anche l’esigenza di imprimere su tela le inquietudini, i timori, le insicurezze così come le convinzioni che scaturiscono da un dinamismo mentale che fa parte di me. In ogni dipinto si nascondono simboli e significati nascosti. Il suo è un modo per esprimere un’interiorità che non riesce a manifestarsi in maniera diversa oppure è un’esortazione verso l’osservatore a meditare sui messaggi che cela nelle sue tele? Ci troviamo oggi a lottare tutti contro un nemico invisibile, ma tremendamente concreto nei suoi effetti contro l’umanità, io dipinsi nel 2018 l’opera dal titolo Scala nervi, dove ci sono due figure umane in piedi nel lato destro della tela, un uomo e una donna incinta entrambi con le mascherine per respirare un ossigeno che li manterrà in vita all’interno di un meccanismo dove altre figure umane sono tutte collegate a una mente pensante che le induce a mettersi in fila per scappare verso un altro mondo, forse dove l’aria sia più respirabile o forse per essere portati verso un altrove a loro ignoto. Non è assolutamente un’opera premonitrice, solo il frutto della mia osservazione delle storie accadute nel mondo eppure in qualche modo incredibilmente attuale. Pandemia, Olio su tela, cm 70×100 anno 2018 Le sue opere raccontano di un’era ipertecnologica dove però non mancano riferimenti a un passato più tradizionale. Cos’è più auspicabile secondo lei? Seguire l’innovazione o restare agganciati a una tradizione che forse era più ricca di valori? Come coniugare i due estremi senza sacrificare l’uno a vantaggio dell’altro? Parto dal principio, il progresso è positivo se dosato e adattato alle diverse generazioni, quello che invece manca è il rispetto tra le genti perché troppo spesso questa nostra tecnologia travolge il passato e tende a nascondere gli esempi negativi cancellandoli dalla memoria collettiva impedendo così alle nuove generazioni di analizzarli ed evitarli. L’innovazione è fondamentale, vitale per l’evoluzione ma alcuni valori, alcune tradizioni, non possono e non dovrebbero essere lasciati indietro, gli errori di chi ci ha preceduto non dovrebbero essere ripetuti bensì mantenuti come modelli da non ripetere. In sostanza direi che i due estremi possono essere entrambi utili e funzionali per evolvere in maniera consapevole senza tornare su corsi e ricorsi storici che ci farebbero giungere alla stessa consapevolezza precedente, prima che venisse dimenticata. Quali sono i suoi prossimi progetti? Il progetto è uno, realizzare tutti i miei bozzetti in opere d’arte compiute. Quello delle mie opere è un mio viaggio personale, intimo, a cui approccio solo con me stesso e non mostro a nessuno fino al momento in cui il risultato finale corrisponde a ciò che la mia mente aveva immaginato. Solo a quel punto l’opera potrà essere visibile anche agli altri.

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