I grandi album: “L’alba” di Riccardo Cocciante (1975)

di Sergio Fanti
copertina
Fu il quarto album di Cocciante. L’anno prima c’era stato il successo di “Bella senz’anima”, e fu l’ultimo lavoro del Cocciante rabbioso, cui seguirà “Concerto per Margherita” coi fastosi arrangiamenti di Vangelis. Pur essendo un album di canzoni singole e pur non raccontando una storia, si può dire che “L’alba” sia quasi un album-concept. Cioè un album costruito intorno a un’idea originaria che lo unifica. Per inciso, ricordo che Cocciante esordì nel 1972 con “Mu” un vero e proprio “concept”, una sorta di opera-rock che metteva in musica la storia del mitico continente Mu. “L’alba” racconta di un uomo in fuga. In fuga da tutto. Senza una meta ma in fuga. Con l’ossessione di andare via, in qualunque posto che non sia qui. Già l’esordio dell’album è un manifesto delle sue intenzioni. “Smania” è una piccola canzone che parla di stanchezza di vivere, di insoddisfazione, di inadeguatezza, e di voglia di scappare. Subito dopo, “L’alba” conferma il concetto. Lo conferma in modo indelebile, con grande virulenza. Un pezzo geniale, poverissimo di elementi musicali. Una sequenza di pochi accordi pianistici che si snoda ossessivamente lungo tutto l’arco dei quattro minuti;  il canto è anch’esso una melodia scarna e ossessiva che si ripete in crescendo, a supportare un testo che sciorina in maniera didascalica le sensazioni di alba-giorno-sera e notte, sensazioni di un uomo imprigionato da tutto, e da un vortice di vita che gli reca la sola speranza di reiterarsi ancora. Probabilmente c’è un significato preciso,  una vicenda narrata,  forse una storia di droga, ma io non la colgo. Abbastanza intelligibile è invece “Il tagliacarte” che è la storia di quello che oggi chiameremmo un “femminicidio”: l’amante deluso si allontana dalla vita di lei uccidendola e lasciandole, come un ultimo regalo e ricordo con dedica,  il tagliacarte conficcato nel cuore. Sempre in vena delle amene allegrie del Riccardo Cocciante di quell’epoca,  segue “Era già tutto previsto”, diventato un grande classico della musica leggera. Un’apoteosi dell’auto-commiserazione, condita però da una rabbia che è costitutiva del primo Cocciante. Era già tutto previsto come in una profezia che si è auto-avverata, ma il protagonista della canzone ha voluto ugualmente vivere e lasciarsi lacerare dall’attraversamento di ogni fase di sofferenza di una storia d’amore già finita in partenza. Conclusione “vorrei morire”. Ne sto parlando in modo quasi dissacrante a scopo di alleggerimento, è un pezzo bellissimo e straziante, basato su un’unica frase musicale che si ripete su tre tonalità differenti. La prima facciata del vinile termina con “Vendo”, un piccolo autoritratto del proprio ruolo di cantautore che dispensa canzoni tristi. Il lato B si apre con “E lei sopra di me”: la raffigurazione di un rapporto con la donna dominante e traditrice. Anche qui grande minimalismo: una melodia che diventa tale solo quando si sviluppa, nella fase finale del brano. Tutto è imperniato sulla veemenza vocale di quel Cocciante, rauco e grintoso. Poi c’è “Canto popolare” a mio avviso il brano meno significativo. E’ stato tuttavia apprezzato da altri cantanti che lo hanno inciso: tra questi Ornella Vanoni nell’album “La voglia di sognare”, nel 1974, addirittura prima dell’incisione di Cocciante. A seguire, un piccolo gioiello, voce e pianoforte. “La morte di una rosa” dipinge poeticamente la perdita della verginità. “L’ultima poesia sulla morte di una rosa / mentre la tua pelle bianca sembra un abito da sposa”. Il pianoforte intreccia un disegno tardo-romantico. Due minuti sospesi e belli. E arriviamo a quello che per me è, assieme a “L’alba” e “Era già tutto previsto”, il piatto forte dell’album. “A mio padre”, meraviglioso e intenso brano sulla perdita di identità e di importanza in uomo che invecchia. Davvero toccante e convincente. In chiusura “Comica finale”, brano un po’ stravagante ma notevole. Ci vorrebbe, per finire, una comica finale su tutte le disgrazie del mondo. Un album imperniato sulla voce e sul pianoforte di Riccardo Cocciante. Un album crudo, essenziale, senza fronzoli, e con le liriche di un Marco Luberti al completo servizio della vocalità e della personalità del cantautore (che è compositore delle musiche). Non ha bissato il successo planetario di “Bella senz’anima”, ma fu comunque tra il primo e il secondo posto in classifica per parecchie settimane, alternando il primato coi Goblin, che dividevano con Cocciante i concerti della tournée invernale: un tempo a testa. Per l’estasi degli spettatori che con un solo biglietto potevano rimirare il primo e il secondo in classifica. Per la cronaca, anzi ormai per la storia, i Goblin avevano inciso “Profondo rosso” colonna sonora dell’omonimo film di Dario Argento.