La delusione politica è direttamente proporzionale all’età anagrafica. Molte risposte e decisioni che si sono credute giuste, si sono, col tempo, rivelate inefficaci o, peggio ancora, sbagliate. Il guaio è che per scoprirlo si impiega tanto, troppo tempo, e giungi al punto che cominci a pensare che ormai sia troppo tardi e che, forse, è meglio desistere. Ma cedere a questa tentazione equivarrebbe a darla vinta ad un sistema che ha puntato da sempre a convincerci che sognare un mondo diverso è roba da disadattati. È per questo che, ad onta degli anni, rimango legato ad una visione ottimistica della realtà, e non per una testarda volontà di non accettare la sconfitta, ma perché intravedo nella situazione attuale dei segnali che, al di là della volontà del potere che ci sovrasta, sembrano destinati a confermare, non più la volontà di cambiamento, quanto la sua ineluttabilità.
Scrostando la superficie dell’ovvio ho trovato, inoltre, il senso da dare alla frase fatta “dopo questa pandemia niente sarà più come prima”, in cui, però, non si ha piena consapevolezza di cosa sia stato il prima, ma soprattutto del cosa ci aspetti dopo.
Dietro questa, apparentemente, vuota affermazione ho trovato, ben nascosti, una serie di problemi a cui, ad oggi, col ricatto del voto utile, non è stato possibile dare risposte adeguate. Il problema che mi è apparso più gigantesco è quello che riguarda la scelta del modello di sviluppo.
La forza della realtà, probabilmente e sperabilmente, si imporrà alla volontà, sempre più determinata, di perpetuare un sistema che ci ha condotto alla distruzione dell’ecosistema, portando con sé pandemie e disastro climatico. Ed è in un quadro come questo che, più che un’alternativa in mano alle decisioni dell’uomo, credo, si prospetti, per il futuro, un contenimento forzato della sua volontà di dominio, di cui Bacone è stato profeta nell’opera La Nuova Atlantide, e Horkheimer e Adorno critici spietati nella loro Dialettica dell’illuminismo.
E così ci troviamo, oggi, ad assistere al dibattito, a tratti surreale, tra sostenitori della crescita infinita, senza limiti e i sostenitori della decrescita. A questi ultimi va rimproverato l’avere spesso aggettivato il sostantivo “decrescita” con la parola “felice”, suscitando l’ilarità di quelli che continuano a decantare le magnifiche sorti e progressive. Perché, diciamocelo, a nessuno piace decrescere!
Ora, in realtà, credo che il nostro tempo non ponga tanto questa alternativa quanto l’ineluttabilità della decrescita. Se è vero, come è vero, che l’attuale pandemia, e la sua narrazione funzionale al sistema, non sarà l’ultima, come pensa l’uomo di affrontare una realtà che ci costringe a rinunciare a tante conquiste che ritenevamo irrinunciabili e definitivamente acquisite? Un modello di sviluppo non è qualcosa che si modifica dall’oggi al domani, così come l’attuale è il frutto di secoli di brusche frenate e repentine accelerazioni. Ma proprio per questo sarebbe necessario cominciare ad affrontare con serietà il problema, anziché adottare politiche dal respiro corto ispirate più alla logica dei pannicelli caldi che a vere strategie di intervento radicale.
Una società che poggia su una logica consumistica quanto potrà reggere all’urto di lockdown a singhiozzo, di limitazioni agli spostamenti e di restringimento delle libertà personali? Non sarà necessario modificare lentamente, ma inesorabilmente, il nostro stile di vita? Dove andranno tutti quelli che hanno dovuto chiudere bottega e che hanno dovuto rinunciare anzitempo alle loro attività?
È forse questo l’inconfessabile obiettivo della narrazione pandemica? Eliminare le piccole attività per realizzare il sogno della concentrazione in poche mani della produzione e distribuzione dei beni?
Esisteva un altro modo di gestire la pandemia? Perché così come è indubbio che esista una pandemia, è altrettanto indubbio che esista una narrazione pandemica, intesa come ri-costruzione del quadro pandemico ad usum del neoliberismo, fatto, principalmente, come già detto, di limitazioni delle libertà individuali e di conculcamento di alcuni diritti fondamentali.
È ragionevole lasciare la soluzione dei problemi che sono emersi in tutta la loro drammaticità a chi li ha creati?
In nome della salute, diventato bene assoluto, dopo decenni di smantellamento della sanità pubblica, la pandemia rappresenta l’occasione per assestare l’ultimo e definitivo colpo alla possibilità di aggregazione, vero spauracchio per chi ha tutto l’interesse a ridurre gli esseri umani ad individui isolati, dopo averli solleticati col mantra “tu sei ciò che hai”, premessa necessaria per convincerli che “la società non esiste”.
Approfittando della paura, da sempre ottimo strumento per tenere sotto controllo le masse imbottite di informazioni a senso unico, l’Europa del liberismo compassionevole è riuscita nell’impresa di presentarsi come unica salvezza per il popolo. Con l’inganno del voto utile, ci hanno fatto credere per decenni che votare servisse a qualcosa, salvo poi attuare politiche fotocopia, una indistinta e indigeribile poltiglia, simile alla notte in cui tutte le vacche sono nere.
Ma sognare un mondo nuovo non significa necessariamente stare fuori dalla realtà.
Il vero problema che a questo punto si pone non è attorno a cosa aggregare chi è deluso da decenni di politiche buone solo a creare povertà, perché qualcuno c’ha provato con esiti disastrosi.
Rispolverando una vecchia espressione ormai in disuso, visto che il pensiero unico neoliberista ha spazzato via qualunque residuo di resistenza, credo che l’unica possibilità rimasta sia una “rivoluzione culturale”, certamente lenta, in grado di costruire quello che il neoliberismo ha saputo fare benissimo, e cioè un’egemonia culturale da contrapporre a quella realizzata dai sostenitori di quello che S. George ha definito Modello Elitario
Molti di noi, che abbiamo creduto in un mondo migliore, non ci saremo, ma lavorare in questa direzione sarebbe la migliore eredità di una generazione che si è lasciata irretire dai miti del consumismo e della globalizzazione, senza avere capito che si stava facendo il gioco del nemico.
Scopri, forse troppo tardi, che quel voto era tutt’altro che utile, era un voto futile, buono per illuderci che esista ancora qualcosa di simile alla democrazia, almeno nel significato che ci è stato insegnato a partire dalla scuola elementare.