La banda del Ponte

Non sai quando, ma sai che accadrà.  Come un fenomeno carsico, ritorna, puntualmente, la banda del Ponte sullo stretto. Fameliche bocche sbavano in attesa di un “pronti…via”. La richiesta della banda si presta ad una doppia lettura. Una è quella secondo la quale la costruzione del Ponte rappresenta un’arma di distrazione di massa, l’altra, più accreditata, per la quale il Ponte è la gallina dalle uova d’oro del XXI secolo.

Premesso ciò, ci tengo a dire che ho sempre apprezzato chi costruisce ponti e disprezzato chi erige muri, ma questa regola, come ogni regola, ha le sue eccezioni. 

Quello che reputo l’errore di fondo di scelte simili, è la logica che le muove, una logica perversa secondo la quale è grazie a queste opere che si sblocca l’economia italiana, ingessata da decenni, poiché esse favoriscono l’occupazione e garantiscono  un futuro radioso al paese. 

Come sempre, quando ci sono grossi interessi in gioco, si scelgono le soluzioni più convenienti, non per il paese, ma per i grandi gruppi industriali e le mafie, che attendono con ansia queste decisioni, per incrementare i loro affari. Se poi, come manna dal cielo, arriva in soccorso la sempiterna logica emergenziale, allora i giochi sono fatti, perché non solo si potranno fare danè, ma i controlli si assottigliano e diventa più semplice favorire qualche amico! E  questa è storia! 

Non è fuori luogo ricordare quanti affari hanno fatto sia le grandi  che le piccole imprese edili ed il loro indotto, a seguito degli eventi tellurici che si abbattono con frequenza nel nostro paese. Qualcuno forse ha conservato memoria di quella ignominiosa telefonata in cui, in occasione del terremoto dell’Aquila del 2009, due imprenditori, che credo sia esagerato definire esseri umani, ridevano al pensiero di quanti affari avrebbero fatto “grazie” al terremoto, in seguito al quale morirono 309 persone.

Ma molto più incisivo è l’esempio del TAV Torino-Lione, che provocherà un danno ambientale incalcolabile, dopo che diversi studi ne hanno evidenziato l’inutilità, in quanto le stime sul traffico sono di gran lunga inferiori alle previsioni, per cui il vantaggio in termini reali sarà quello di arrivare mezz’ora prima a destinazione. Magra consolazione!

Ed ancora, il Mose con i suoi costi di realizzazione e di manutenzione stratosferici, quando era possibile realizzare opere più leggere e meno  costose, ma perciò stesso meno appetibili. 

Ciò che rende particolarmente sconsigliabili per l’economia del paese questi interventi infrastrutturali  è sia la lievitazione dei costi rispetto alle previsioni di spesa originarie, costi che finiscono sempre per ricadere sui  cittadini, sia l’impatto sull’ambiente in termini di sostenibilità. 

Ma allora, si dirà, come si fa a far rinascere il paese?

Infatti, l’obiezione più ricorrente a chi si oppone a questo tipo di scelte è che, senza queste grandi opere, saremo sempre al palo, con un’economia che langue e sotto la continua minaccia dell’Europa, sempre pronta a intraprendere procedure d’infrazione contro il nostro paese.

Sono sicuro che i sostenitori delle grandi opere sanno benissimo che esistono alternative alle loro proposte, più valide e più vantaggiose per il paese. A cominciare dalle opere di risanamento di buona parte del nostro territorio, devastato dal dissesto idrogeologico, per continuare con gli interventi finalizzati alla risistemazione degli edifici scolastici e alla salvaguardia del patrimonio artistico o al rifacimento di intere reti idriche, molte delle quali ridotte a veri e propri colabrodo.

Il fraintendimento di fondo è legato all’errata convinzione che grandi opere sia sinonimo di grande occupazione, mentre l’unico sinonimo che si può utilizzare è cementificazione selvaggia, direzione già da tempo abbandonata da tanti paesi che, al  contrario,  investono nell’economia verde.

Ed allora cari politici, sarebbe bene che la smetteste di pensare al tornaconto vostro e dei vostri sodali ed evitaste di compiere scelte scellerate sulla pelle delle generazioni  future e che, una volta tanto, ascoltaste la saggezza degli antichi che ci ricorda che la terra non l’abbiamo ricevuta in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli.