Le morti bianche e la coscienza sporca della politica

Un po’ di numeri dovrebbero bastare. Ma temo che non siano sufficienti. 

Nel primo trimestre di quest’anno si sono registrati   185 morti sul lavoro, in aumento dell’11,4% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un’ecatombe! Eppure per qualcuno ancora non bastano per aprire un vero e proprio processo al sistema delle ispezioni, notevolmente diminuite nell’ultimo anno, e all’ipocrisia di politici che si indignano per un paio d’ore per poi tornare in letargo sul tema, perché  l’agenda politica ha cose ben più importanti cui pensare. Questo comportamento è figlio della mentalità secondo la quale le ideologie sono morte e con esse la classe operaia e tutti quei ferri vecchi cari ai nostalgici che non hanno capito che la globalizzazione è la nuova forma che ha assunto l’internazionalismo, per cui è bene che costoro se ne facciano una ragione. Cosa volete che gliene importi alla gente di 185 morti, direbbe il Toscani. 

E poi ci sono tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori che quotidianamente rischiano la vita per consentirci di condurre una vita quasi normale, quelle  commesse  e quei commessi dei negozi che ogni mattina si  recano al lavoro, magari stipati in autobus nei quali il distanziamento è una chimera.

È fuori discussione che tutti i diritti debbano essere tutelati; è meno scontato che su alcuni ci sia una grancassa mediatica permanente, mentre di altri si tenda a evitare di parlarne. 

La prova tangibile di ciò è il grande clamore che suscitano gli episodi, pur gravi, di razzismo e di  violenza che riescono a mobilitare un gran numero di persone, cosa che non accade quando si devono affrontare temi  come le morti sul posto di lavoro, il diritto alla salute o all’istruzione.

In una logica mercatista questi comportamenti non ci stupiscono. Infatti, mentre la difesa di alcuni diritti è a costo zero, per altri sono necessari interventi che richiedono una spesa. I padroni, per esempio, sanno che aprendo un discorso serio sulla sicurezza sul posto di lavoro dovrebbero mettere mano al portafoglio, cosa, per loro, sempre sgradevole. Valga per tutti, il caso Arcelor-Mittal. E che questo preoccupi i padroni è comprensibile, ma che preoccupi anche forze politiche che dovrebbero tenacemente opporsi a questa logica è incomprensibile, oltre che inaccettabile.

Ricordo agli smemorati che quando cadde il ponte Morandi, per la maggiore forza della sedicente sinistra, quella che avrebbe dovuto esprimere il cordoglio per quanto avvenuto, e cioè per le 43 morti, la prima preoccupazione fu quella del crollo in Borsa dei titoli dell’azienda responsabile del ponte.

E sono pure stanco di vedere le facce  contrite di presidenti della Repubblica, Senato, Camera, giù giù fino ai sindacati che fanno la voce grossa per un giorno e poi continuano a giocare partite che non interessano più a nessuno, coinvolti come sono in giochi di potere che dovrebbero contrastare.

Persino la legge che avrebbe dovuto fare definitiva chiarezza su questo tema, il famigerato “Jobs Act”, ha previsto norme che, con l’alibi della tutela del lavoratore e della sicurezza sul posto di lavoro, introducono l’uso di nuove tecnologie che determinano  forme di controllo continuo e capillare dell’attività del lavoratore, condannate dalla Corte europea dei diritti umani. Il riferimento è ai dispositivi, come il braccialetto elettronico, chiamati «wearable tecnology» che, nella realtà, aumentano il potere di controllo e sfruttamento. 

In un mondo in cui l’informazione è in mano ai padroni delle ferriere, è del tutto normale che le leggi vengano sempre presentate al pubblico pagante come strumenti atti a migliorare la qualità della vita.

Per chi vuole, invece,  conoscere a fondo la realtà c’è solo il passaggio stretto della ricerca, dalla quale veniamo tenuti rigorosamente lontani grazie alla solerte attività dell’informazione, soprattutto quella televisiva, che svolge egregiamente il suo ruolo, ricordandoci, ad ogni piè sospinto, che viviamo nel migliore dei mondi possibili!

D’altronde, ormai è consolidata la convinzione che  il telespettatore italiano medio sia una persona scarsamente intelligente. Ce lo hanno ricordato in tempi diversi due grandi intenditori di televisione, Ettore Bernabei, indimenticabile direttore RAI dal 1961 al 1974 e Silvio Berlusconi per i quali il telespettatore italiano ha l’intelligenza di un bambino di dodici anni.

Gli anni sono passati, ma nessuno si è preoccupato di fare uscire il telespettatore medio da questo stato di minorità, anzi, a ben guardare, possiamo affermare che  in tanti si sono prodigati  per farvelo rimanere.