di Sergio Fanti
Stanford è una città della California, nella quale lo psicologo Phlip Zimbardo concepisce nel 1971 un esperimento che passerà alla storia. Inquadriamo un attimo questo Philip Zimbardo. E’ un giovane professore di psicologia, particolarmente attivo e geniale. Ai fini della comprensione di quanto sto per raccontarvi, è rilevante sapere che Zimbardo ha studiato un altro psicologo, un certo Gustave Le Bon.
L’esperimento di Zimbardo ha proprio l’intenzione di sperimentare le teorie e le idee di Gustave Le Bon. Ma cosa sosteneva questo Le Bon? Sosteneva che gli individui, inseriti in un gruppo, perdano le loro caratteristiche personali: si deindividualizzano e sono portati a fare cose che da soli non avrebbero fatto. Tendenzialmente cose più brutte che belle.
Zimbardo individua una struttura da adibire a finto carcere (un sotterraneo dell’università), fa un casting nel quale seleziona 24 studenti bianchi, incensurati, di buona famiglia, senza problematiche di alcool e droga, non c’era gente strana con problematiche di inserimento sociale o di inquietudine…insomma tutto era il massimo della regolarità e li suddivide con un sorteggio in guardie e detenuti. Importante ricordare che era solo il sorteggio a stabilire se un candidato diventava un carcerato oppure una guardia.
Una domenica di agosto parte l’esperimento, che però non si svolge come si può pensare, con una tranquilla convocazione sulla location stabilita. No: alle 6 e mezzo del mattino gli studenti adibiti a carcerati vengono arrestati nelle proprie abitazioni da poliziotti veri, e vengono portati prima nel carcere vero di Paolo Alto per essere identificati, e poi vengono trasferiti nel sotterraneo dell’Università, con una benda sugli occhi in modo che non capiscano di essere all’interno dell’Università. Tutto è approntato come in una prigione vera: cella, inferriate, e tutto quanto. Ci sono telecamere e microfoni nascosti per registrare e studiare, e le guardie sono vestite da vere guardie e i carcerati da carcerati, cioè indossano camicie lunghe numerate e hanno una calza di nylon sulla testa, come se i capelli fossero rasati a zero, e una catena alla caviglia.
Philip Zimbardo ha previsto due settimane di osservazione. Ma l’esperimento durerà pochi giorni. I carcerati vengono svegliati alle due di notte per la conta, e vengono chiamati non per nome, ma per numero. Se un carcerato non capisce qualcosa o sbaglia qualcosa, viene punito dovendo fare flessioni sulle braccia. Raccontata così – essendo un esperimento pagato – sembra facile a farsi, due settimane di recita e poi tutti a casa. Ma già alla mattina del secondo giorno scoppia una rivolta: i detenuti si strappano le camicie e si barricano dentro le celle. Le guardie del turno di giorno rimproverano quelle che hanno fatto il turno precedente. La rivolta viene sedata dalle guardie che sparano con gli estintori dentro le celle, tirano fuori i prigionieri, li spogliano nudi e tengono in isolamento e in digiuno i presunti capi. Consentono di mangiare, davanti a loro, cioè ai colleghi carcerati, coloro che invece tra i prigionieri sono stati bravi e mansueti. Costoro vengono quindi considerati dei traditori. Accade che per andare in bagno devi chiedere permesso a una guardia, che può anche non concedertelo. Ma attenzione: queste e altre idee che non elenco adesso non furono idee originarie di Zimbardo, sono invece idee partorite dalle guardie in quello che stava diventando l’andar fuori controllo dell’esperimento. Guardie e carcerati si sono calati benissimo nel ruolo, al punto di viverlo. Dopo 36 ore dall’inizio dell’esperimento, un detenuto accusa manifesti disturbi emotivi, scoppi di ira e di pianto. Al terzo giorno Zimbardo manda un finto prete a colloquio coi detenuti. Alcuni di loro si presentano non col proprio nome ma con il numero. Nel frattempo, un secondo detenuto va fuori di testa e viene mandato a casa, mentre un terzo, anch’esso disturbatissimo, si rifiuta di tornare a casa perché tradirebbe la fiducia dei compagni detenuti. Il professor Zimbardo farà fatica a spiegargli e ricordargli che lui non è un vero prigioniero, ma uno studente che sta conducendo un esperimento universitario. D’altro canto, anche le guardie debordano dai binari dell’esperimento, e alcune di loro esagerano in modo sadico con nuove punizioni.
L’esperimento si conclude al quinto giorno, quando gran parte dei prigionieri è a pezzi, non dorme, non mangia, e le guardie diventano sempre più sadiche. Arriva un avvocato per trattare una sorta di libertà vigilata, e i detenuti non si ricordano più dell’esperimento, trattano seriamente con l’avvocato esponendo le proprie ragioni per ottenere questa libertà vigilata, poi tornano in cella a piangere sperando che la loro richiesta venga accolta. All’ennesimo sopruso delle guardie, Zimbardo e i suoi bloccano l’esperimento, perché le cose stavano degenerando al punto da poter comportare conseguenze davvero gravi.
Le guardie dovevano ossequiare il proprio ruolo e quindi imponevano determinati comportamenti coercitivi ai detenuti.
L’esperimento doveva durare due settimane, sufficienti a mostrare come cambia il comportamento della gente normale in una determinata situazione.
Quello che sembrava un gioco, o che era comunque una finzione, è presto diventato realtà: dopo 2 giorni i carcerieri hanno inasprito le coercizioni, e i carcerati cercavano di ribellarsi e progettavano l’evasione. Ma al quinto giorno – questa è la cosa più interessante – i carcerati avevano introiettato il loro stato di prigionieri e mostravano una passività e condiscendenza, si erano adeguati. Secondo Zimbardo, non sono le persone ad essere malvage, ma sono le circostanze a renderle tali. La circostanza più grande è lo stato di potere.