Figliuolo va alla guerra

Quella che vorrei proporre con queste mie riflessioni è un’analisi di tipo sociale e psicologico che possa aiutare a capire ed anche a spiegare fenomeni e personaggi dell’attualità, senza tralasciare i possibili risvolti pedagogici. L’oggetto della presente riflessione è la figura del generale Figliuolo, intesa come immagine topica della conduzione della pandemia da parte dei nostri governi, nei suoi aspetti anche biopolitici. La domanda da cui tutto ha avuto origine è la seguente: “Perché il generale Figliuolo si presenta al pubblico in divisa pluridecorata?” Sin da subito non ho condiviso la lettura proposta da qualcuno secondo la quale la figura di un militare evocava un sentimento di paura. Mi è parsa, invece, evidente la  volontà di veicolare  l’immagine di uno stato di guerra, termine quest’ultimo utilizzato per indicare la lotta al virus a partire dal momento in cui ha assunto dimensioni planetarie. E cosa di meglio di un generale che, per definizione, trova la sua massima realizzazione nello stato di guerra? Siamo in guerra, ergo, per convincere i cittadini che si fa sul serio, è bene proporre come comandante e condottiero un alto esponente dell’esercito. Meglio se pluridecorato. Non molto è stato scritto su questa analogia tra lotta al virus e guerra e fra le poche pagine ho trovato molto interessante quella di Pasquale Pugliese dal titolo Questa non è una guerra, nella quale vengono elencati dieci buoni motivi per rifuggire da questa impropria analogia. 

L’impatto psicologico di una simile analogia non è immediatamente evidente. Tra i significati ben nascosti al suo interno vi è la giustificazione di uno stato di emergenza che legittima e mescola alcuni interventi di buon senso e precauzionali con altri repressivi, come si addice ai periodi di guerra.

Lo stesso si può dire dell’aspetto sociale in quanto una simile impostazione riproduce la sempreverde dicotomia amici/nemici. La società si spacca in due (cosa che torna sempre utile, soprattutto ai sistemi in crisi come quello attuale), da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, possibilmente evitando contatti che possano favorire la creazione di condizioni per un proficuo dialogo/dibattito, per cui ci si spinge verso la più radicale dicotomia bene/male, giusto per rendere insanabile la frattura sociale.

Non credo, infine, che si debba trascurare la dimensione pedagogica, che reputo, anzi, sia quella che funzioni meglio in simili contesti. Anche qui si presenta una dicotomia, quella premio/punizione, propria delle pedagogie che si fondano sulla logica del “se sei bravo e obbedisci  agli ordini fai parte del consorzio umano” ma se non lo sei allora meriti di essere punito con l’esclusione dalla vita sociale.

Anche in questo caso il richiamo alla vita militare, in cui gli ordini dei superiori non si discutono, funge da ottimo supporto subliminale che aiuta ad evitare qualunque forma di negoziazione o di pacifico dibattito, che è esattamente l’obiettivo che è stato raggiunto durante questi due anni di pandemia.