Dalla pandemia al governo dei militari

Mi ero stupito, ma non inquietato, quando qualcuno a proposito dell’esternazione del professor Monti sull’informazione in periodo di guerra, come noi oggi, secondo il suo illuminato parere, siamo, ha paventato scenari di colpo di stato. Continuo ancora a pensare, nonostante tutto, che alla “democrazia della paura” basta e avanza il colpo di stato strisciante, in atto da decenni, per controllare il dissenso. Ma la mia indole dubbiosa, al limite del sospetto, nel leggere alcuni interventi sparsi qua e là, a volte a mo’ di battuta a volte più seri, sta cominciando a instillare alcune paure. Solo che le mie paure, diversamente da quelle diffuse, non riguardano i temi medico-sanitari, ma quelli, volutamente oscurati, giuridico-costituzionali. Come in un puzzle, va prendendo forma l’idea che stia accadendo quello che accade con i farmaci. Quando, cioè, i dosaggi di un farmaco diventano sempre meno efficaci, o si aumentano le dosi quotidiane, fino al punto, a volte, da provocare gravi effetti collaterali o si passa a farmaci più potenti. Come in un un crescendo rossiniano si è partiti dall’uso apparentemente innocuo del termine “guerra” fino ad arrivare a nominare un generale come responsabile della gestione della pandemia nei suoi aspetti organizzativi. Poi si è espunta dall’informazione la componente di esperti non allineati alla versione ufficiale e si è criminalizzata qualunque posizione critica intorno alla gestione politica della pandemia, utilizzando spesso in maniera disinvolta e di parte, sia i dati provenienti dagli ambienti scientifici sia quelli provenienti dai risultati conseguiti in seguito all’uso dei vaccini. 

Per rendere più digeribili le controverse scelte del governo sono scesi in campo filosofi come Marramao il quale, contro i colleghi Agamben e Cacciari, si fa portavoce di una bizzarra tesi e cioè che, contestando l’attuale impianto governativo della lotta al virus, si porta “acqua al mulino delle destre”, le quali ringraziano sentitamente.

Ma per spezzare le reni al nemico e mettere a tacere chi nutre perplessità derivanti dalle continue inoculazioni, dalla durata della loro efficacia e dall’impossibilità, ormai accertata e accettata, di non poter pervenire all’immunità di gregge,  né tanto meno all’eradicazione del virus, c’è sempre qualche star dell’establishment disposta a dare una mano. Chi? Ma il professor Monti Mario, of course, già tristemente noto per i colpi inferti ai lavoratori dal suo governo, della cui azione rimangono ancora ferite. Dunque, il professor Monti, dall’alto della sua posizione di “riserva della Repubblica” (si dice così?), esprime in pubblico ciò che altri pensano in silenzio: è necessario mettere il bavaglio all’informazione come nei periodi di guerra!  E anziché sollevare una protesta unitaria il mondo del giornalismo si divide. C’è chi addirittura, nel caso di crisi di governo, ha ipotizzato un “governo elettorale, forse perfino militare, com’è accaduto con il generale Figliuolo, per le vaccinazioni. A mali estremi, estremi rimedi”.(1) Si è superato il limite? Mah! Ho l’impressione che con la tecnica dei piccoli passi si stia provando a realizzare in Italia quanto già succede in alcuni paesi dell’Est europeo dove si vanno instaurando le “democrazie illiberali”, ossimorico tentativo di accompagnare l’Occidente verso il progressivo distacco dalla tradizione democratico-liberale, che sembra non reggere più sotto il peso sempre più preponderante della finanza mondiale decisa a giocare a carte scoperte, e senza particolari infingimenti, la partita decisiva, infliggendo il colpo decisivo: convincere con le buone o con le cattive che il sistema attuale non si può reggere su basi democratiche e che è bene che ci si affidi a chi ne conosce bene i meccanismi, per continuare a godere dei benefici che il sistema stesso elargisce ai suoi sudditi! Se poi proprio volete, sembrano voler dire i decisori, possiamo fare ancora l’ultimo passo: un bel governo di militari che, strappando l’ultimo velo, vi faccia vedere in faccia l’amara e cruda realtà! 

1.

Affermazione del giornalista Marcello Sorgi in un suo fondo su La Stampa del luglio scorso.