di Sergio Fanti
Il secondo dei tre appuntamenti di TLON all’Oratorio San Filippo Neri (lo scorso 6 aprile) ha avuto come tema “Le distopie”. Il percorso dei tre appuntamenti è scandito da “Il metaverso”, “Le distopie” e “Gli extraterrestri”, ultima tappa che andrà in scena il 13 aprile.
Sono tre appuntamenti che rimandano al tema della virtualità, della realtà virtuale come metodo filosofico per comprendere e scardinare il presente.
Nella puntata sulle distopie, Colamedici e Gancitano sono partiti dall’origine del termine “fantascienza”, coniato nel 1926 da Gernsback che in realtà parlò di “science-fiction”, cui seguirono alcune traduzioni distorte quali “scienza fantastica” per poi arrivare a “fantascienza”. Ma soprattutto è interessante comprendere quale sia stata l’esigenza che ci ha fatto partorire mondi immaginari. La motivazione che ci ha mossi non è stata quella di immaginare situazioni astruse come semplice esercizio di fantasia, bensì quella di raccontare ciò che c’è attraverso ciò che (ancora) non c’è.
Gancitano e Colamedici ripercorrono così le grandi tappe dei pensieri utopici, partendo da colui che fu il primo utopista, vale a dire Platone nella sua Repubblica, per poi toccare Stuart Mill, Thomas Moore e altri, con la finalità di capire la sostanza del pensiero utopico.
In sostanza, con la pratica dell’utopia, si tratta di produrre un esperimento mentale attraverso il quale le persone possano rendersi conto di ciò che possono cambiare qui, nella realtà “vera”. Si parla di utopia, distopia, e della terza via rappresentata dalla atopia, cioè non essere né qui né altrove.
La “raccomandazione” di Tlon è quella di non ubriacarsi delle distopie orwelliane, che producono rinuncia e impotenza, e di preferire ad esse le distopie partorite da Adolf Huxley ne “Il mondo nuovo”.
Molto interessante è la finestra aperta su Byung-chul Han, filosofo coreano contemporaneo che in qualche modo fotografa la nostra condizione di esseri “costretti ad essere felici” soffocando malesseri e rabbie, e trovando mille modi per evitare il dolore. La pratica distopica – al contrario – ci mette faccia a faccia col nostro dolore, come una presa di consapevolezza che finalmente può destarci dal torpore nel quale il potere morbido e permissivo del neo-liberismo ci anestetizza, proteggendoci dal dolore. Un dolore salvifico, come il pensiero filosofico.