Carlo V d’Asburgo a metà del XVIII secolo istituì una commissione per decidere intorno alla liceità di rendere schiave le popolazioni del Sudamerica da parte dell’Europa. In pratica si trattava di stabilire se tali popolazioni fossero considerate alla stregua di esseri umani o no. Era importante tracciare tale confine poiché nel caso non fosse stata riconosciuta l’umanità di questi soggetti automaticamente si rendeva possibile, senza alcuna remora di tipo religioso e/o politico, renderli schiavi, mentre in caso contrario ci si sarebbe dovuti astenere e riconoscere il loro diritto alla libertà. Nel film Mission troviamo una puntuale descrizione di questa querelle che vide contrapposte le due fazioni: da un lato le alte gerarchie ecclesiastiche e alcuni emissari dell’imperatore e dall’altro i missionari che si scontravano con le politiche coloniali spagnola e portoghese.
Il regista ha magistralmente trattato, all’interno di una delicata quanto tragica trama, tale tematica offrendoci un puntuale spaccato della mentalità coloniale del tempo.
Sarebbe sbagliato guardare a questo episodio con la convinzione che esso sia proprio di un’età ormai passata e che oggi nel “civile” Occidente ciò non potrebbe più accadere. Purtroppo devo deludere i sostenitori della grandezza dell’Occidente, di cui Federico Rampini è uno degli esponenti di punta, ed osservare con mente lucida quanto sta accadendo vicino, troppo vicino, a noi. Il complice silenzio o le flebili voci che si levano per condannare a parole il genocidio, termine che viene accuratamente evitato per non dispiacere il popolo ebreo, mentre continuiamo ad inviare armi, è la cartina di tornasole di un’Europa incapace di guardare con disincanto alla propria ferocia ed a quella dei soldati israeliani mentre viene riconosciuta solo quella di Hamas e del terrorismo palestinese. Un esempio di quanto l’Occidente sia obnubilato nella lettura della tragedia palestinese ce lo offre un giornalista israeliano Gideon Levy che in un suo intervento ha stigmatizzato il comportamento dei suoi concittadini ebrei che accettano con naturalezza che i palestinesi muoiano di fame o che vengano quotidianamente massacrati. Levy non è per nulla sorpreso dall’appoggio di tanti israeliani alla carneficina che si sta perpetrando a danno dei palestinesi ed attribuisce a tre fattori il motivo di tale appoggio. Oltre alla logica vittimaria ed alla convinzione di essere il popolo eletto cui è concesso qualunque azione, anche la più turpe, il giornalista attribuisce proprio alla disumanizzazione dei palestinesi il più grave motivo per cui gli ebrei possono vivere come assolutamente normale la mattanza/genocidio perpetrata dal proprio esercito.
Proprio come ai tempi del colonialismo spagnolo e portoghese, che almeno si era posto il problema della definizione di ciò che era umano e di ciò che non lo era, oggi ci troviamo a combattere ancora contro questa mentalità genocidaria che pur di giustificare le proprie azioni è disposta ad equiparare i palestinesi a degli animali. A ciò si aggiunga come ormai, grazie ad una indegna propaganda veicolata da indegni giornalisti, sia passata l’idea che qualunque critica nei confronti dei governi israeliani viene, in assoluta malafede, interpretata come una presa di posizione antisemita, trappola in cui è caduta purtroppo anche Liliana Segre, che ne avrebbe, eccome, di strumenti intellettuali per segnare il suo distacco dalle politiche di Nethanyau!
Eppure sono diversi gli intellettuali israeliani e arabi che da decenni invocano strategie diverse nella conduzione della questione israelo-palestinese. Esemplare l’equilibrio dimostrato dallo scrittore israeliano D. Grossman che ha perso il figlio Uri nell’estate del 2006 durante la guerra del Libano, e che da anni ha parole di forte critica nei confronti di Netanyau che sta, a suo parere, traghettando Israele da paese democratico a paese che va verso l’apartheid. Il sospetto che il popolo ebraico sia sprofondato in una comoda logica vittimaria, come ha osservato D. Giglioli in Critica della vittima, è oggi più che mai fondato, una logica i cui frutti si sono storicamente rivelati di gran lunga più vantaggiosi di qualunque altro atteggiamento, perché consente di potere invocare uno status privilegiato che esclude qualunque possibilità di critica. Infatti, scrive Giglioli, “essere vittima dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto”.