Presidente dell’Associazione Cento Pittori di via Margutta, architetto di altissimo livello e artista da sempre grazie all’eredità di entrambi i nonni che lo hanno introdotto nel mondo dei pennelli e dei colori permettendogli di scoprire la sua indole creativa, Luigi Salvatori ha un modo lieve, intenso e lirico di descrivere i paesaggi cari alla sua memoria e al suo scrigno emotivo. La sua caratteristica è di dare voce a tutto ciò che dallo sguardo viene successivamente interiorizzato e rivisitato con le sfumature interiori, quelle dell’anima, quelle attraverso cui un panorama si trasforma in luogo senza tempo ma che al tempo stesso del suono del trascorrere proprio di quel tempo, vibra. L’Espressionismo nelle sue tele diventa poetico, morbido, sfumato proprio perché filtrato da un universo interiore che fuoriesce e ammanta le opere in grado di coinvolgere, con la loro impalpabilità, l’osservatore. Andiamo a conoscere meglio questo importante esponente della pittura romana. Buongiorno Luigi, partiamo con la domanda d’obbligo: come e quando ha avuto il suo primo incontro con l’arte? Ho iniziato l’attività pittorica in giovane età seguendo la mia inclinazione naturale. Già a otto anni dipingevo sia con i colori a olio, sia con i pennini e calamaio che si usavano una volta che con l’inchiostro di china, utilizzando come superfici dei cartoncini o la parte posteriore dei calendari. I colori e le tele li prendevo da mia zia che aveva un negozio di colori e carte da parati, e per pagarli aiutavo mio zio Mario, che era un pittore edile (oltre che pittore di quadri), a tinteggiare interni, porte e finestre, applicare carte da parati e dipingere striscioni e manifesti pubblicitari, tutti a mano come si faceva una volta. Questo mi aiutò ad avere dimestichezza e confidenza con i pennelli e i colori ad olio. Già nel 1963, all’età di dodici anni, venni selezionato per esporre due dei miei primi dipinti su tela al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale a Roma, nella Seconda edizione della Mostra d’Arte dello Studente. Lei è diviso tra la professione di architetto, vantando collaborazioni con istituzioni molto importanti, e quella di artista: come riesce a conciliarle? Mi alzo molto presto per andare a lavorare, alle 6,30 sono già in studio. Divido il mio tempo tra pittura, architettura e famiglia. Sono lavori che mi piacciono e pertanto ogni peso diventa leggero. Simbolo della sua pittura è il paesaggio, cosa l’ha portata a scegliere questo tipo di rappresentazione? Cosa rappresenta per lei il contatto con la natura? Fin da piccolo ero attratto dai panorami e dagli scorci della natura, i campi, le case e le chiesette di campagna, i colori e gli odori della primavera, il verde degli alberi e dei prati, gli azzurri dei cieli. La mia fonte di ispirazione sono stati i luoghi incontaminati della campagna romana dove vivo, ma anche dei campi e delle colline marchigiane, regione d’origine del padre di mia moglie, dove trascorro da sempre le vacanze con la famiglia, in un piccolo paesino, Crispiero di Castel Raimondo, dove il tempo si è fermato, ove vivono ancora i ricordi lontani delle passeggiate in collina e sulle montagne con i miei figli, dove la quiete e i colori nelle varie stagioni sono immortalate in molti dei miei quadri. E poi le mareggiate della maremma laziale, l’azzurro turchese del mare di Puglia, il blu del Tirreno, il litorale di Castel Porziano e ancora quelli della costa marchigiana dove le colline si gettano direttamente sul mare: tutto è motivo di ispirazione. È questo il tempo che definisco il “Periodo della Realtà”. Il suo stile inizialmente era più vicino a quello dei Macchiaioli mentre nell’ultimo periodo si è spostato verso il paesaggio espressionista, ci spiega come mai questa evoluzione? Da cosa è stata determinata? La mia è una continua ricerca interiore. L’ispirazione esterna non mi basta più; il guardar fuori di me passa attraverso il guardar dentro di me e man mano i paesaggi reali sono sostituiti da quelli filtrati dal ricordo attraverso cui l’opera si avvolge di atmosfera sospesa, legandosi all’infinito. Le immagini reali si confondono con quelle delle impressioni illusorie e così in luogo della vista lavora l’immaginazione interiore, la fantasia subentra al reale. Sulla tela si imprimono le immagini, le forme e i colori che l’anima ricorda e rivive. Luci sull’Ara Coeli, 60×60 Una delle sue caratteristiche è quella di dar voce a ciò che apparentemente è invisibile, vuole spiegarci questo concetto profondamente legato alla sua filosofia pittorica? Le mie opere traggono spunto da luoghi riconoscibili, dalla storia dell’arte e dalle architetture. La storia si fa presente e si attualizza nei fatti quotidiani. Il passato diventa storia nel momento in cui acquista una valenza di valori per la contemporaneità e avere la storia come maestra ci aiuta a comprendere i fatti della vita. Mi piace guardare la realtà vissuta attraverso il ricordo della memoria, magari partendo da uno schizzo o da un disegno, chiudendo gli occhi, e poi riaprendoli, e poi chiudendoli di nuovo; nasce così il desiderio dell’invisibile, dell’infinito… ma siccome la mente umana non riesce a concepire l’infinito, in quanto l’uomo è entità finita, non resta che accontentarsi dell’indefinito e delle sensazioni che, confondendosi l’un l’altra creano un’impressione illusoria; l’impressione esterna diventa espressione interiore dell’anima. Ecco, la mia arte si potrebbe definire impressionismo espressivo dell’anima.