di Maria Vittoria Cristiano
Mai come in questi ultimi anni abbiamo visto l’essere umano compiere passi da giganti nel campo della medicina, dell’informatica, della tecnologia e persino della conoscenza dello spazio più profondo. Salti quantici che hanno finito per proiettarci, come grossi e inermi massi in balia di una piccola catapulta azionata da una mano anonima, in un mondo futuristico per il quale, forse, non eravamo del tutto preparati.
La curva dello sviluppo tecnologico, il cui punto zero è rintracciabile, grossomodo, intorno ai primi decenni del secolo appena trascorso, sembra costituire un’unica linea progressiva, priva di soluzione di continuità, caratterizzata da un incremento costante ed esponenziale.
Un’ampia produzione letteraria, spesso di natura non specialistica e destinata al grande pubblico, ha contribuito a creare negli ultimi decenni il mito di una – presunta – contrapposizione tra “tecnologia” e “umanesimo”, ricalcando la distinzione epistemologica, di popperiana memoria, tra le cosiddette “scienze dure”, o hard science – come la matematica, la fisica e la biologia – e le “scienze molli” , o soft science – come la storia, la semiotica, la psicologia ma anche la filosofia in senso ampio – .
Una contrapposizione, questa, che vedrebbe proprio la Filosofia come primo avamposto nella – ormai estenuante – crociata contro la tecnologia: un esempio tra tutti, la posizione radicale assunta più volte dal collega Galimberti negli anni passati. Specie in
In realtà, l’effettiva contrapposizione da fare (se di contrapposizione si può parlare) è quella tra Etica e Tecnica.
Lo sguardo critico deve essere rivolto infatti agli utilizzi di una certa tecnologia, agli scopi che tale uso si prefigge e alle conseguenze che lo sfruttamento di una certa tecnica può generare.
Conseguenze che, spesso e volentieri, possono essere disastrose e avere effetti su scala mondiale, così come ci insegna tristemente la storia, una delle scienze molli di cui sopra.
Come nella recente polemica sorta a proposito dei depositi di stoccaggio di Metano in sovrappressione ospitato – più o meno felicemente – da Minerbio, piccolo Comune di 8000 anime della bassa bolognese.
La decisione di aumentare la pressione del giacimento del 107%, aumentandone così la capacità di circa 420 milioni di metri cubi non fa storcere il naso solo alla popolazione locale, ma pone degli interrogativi di ampio respiro: cosa conosciamo realmente delle possibili conseguenze di un’operazione del genere e come possiamo valutarle con esattezza? (Facciamo riferimento ai possibili fenomeni di sismicità indotta e di rilascio di sostanze inquinanti nell’ambiente circostante). Quali devono essere le priorità delle istituzioni? Ma, soprattutto, è giusto sfruttare fino all’osso risorse naturali finite e non rinnovabili? Dove può portarci un atteggiamento del genere?
Appare chiaro che una svolta seria nell’attuazione di politiche aderenti al Green Deal deve passare, prima ancora che da populistici ecobonus per monopattini elettrici, ad una seria presa di coscienza che uno sfruttamento selvaggio del territorio, dettato da sole motivazioni economiche, non è più, in alcun modo sostenibile a livello sociale né, a maggior ragione, istituzionale.