di Sergio Fanti
Ero ventenne negli anni ’80. Appena il tempo di formarsi, in quegli anni ’70 densi di criticità, dove tutti avevano una sigaretta tra le dita per darsi un tono intellettuale, dove tutti erano arrabbiati per qualcosa…dove per ogni cosa si indiceva un’assemblea…e immediatamente ci si è trovati gettati negli anni ’80, in un gioco irreale di ottimismo sfrenato e di allegria obbligatoria. Le ragazze coi capelli cotonati, i paninari, i giovani che cominciavano a dare importanza all’apparire, e spendevano tanto in vestiti, in quello che cominciava a chiamarsi look e che adesso è diventato outfit. Cominciava l’era delle discoteche che aprivano quando è ora di andare a letto, l’estetica dello sballo per divertimento, i pollici alzati alla Fonzie, debuttava la stretta di mano alla “braccio di ferro”. Tutto andava bene e ogni atteggiamento pensoso-riflessivo andava bandito, pensare non era più necessario, il denaro girava abbastanza e tutto sarebbe sempre andato bene. In questo magico contesto fiorirono dottrine di ristrutturazione dell’individuo, come la pnl, in gran parte orientate al profitto, e soprattutto fiorì l’imperativo del “pensiero positivo”. Non si poteva più esprimere una semplice preoccupazione che immediatamente l’interlocutore ti sciorinava la sua grande soluzione: “pensa positivo!”. Qualcosa di buono in questo atteggiamento obiettivamente c’è, perché se la depressione era il tanto conclamato “male del secolo”, stimolare una reazione al suo inesorabile gorgo era – appunto – positivo.
Tirando un po’ le somme a distanza di tempo, mi sembra che il pensiero positivo sia stato un modo per rifuggire dalla coscienza, dal nostro pensiero occidentale che, fra tanti limiti, ha pur prodotto tanto, in nome di una leggerezza che sconfina nell’incoscienza. Pensando alla mia vita di individuo, constato che tutte le volte che mi sono lasciato contagiare dalla febbre del pensiero positivo, in realtà mi sono rilassato, in realtà sono entrato in “modalità-svacco”. E sono stato più passivo di quanto sarei stato in “modalitòà pessimismo”. Le mie sfortune me le sono coltivate le volte che sono stato ottimista e positivo, non le volte che sono stato razionale, attento, e rispettoso delle possibilità avverse. Perché in fondo la voglia di essere positivi nasconde la pigrizia, quella pigrizia mentale che ci fa essere troppo leggeri e pressapochisti.
Quindi il pessimismo non è quella roba da menagrami da rifuggire ad ogni costo. O almeno non lo è completamente. Penso ad una frase di Roberto Gervaso: “ l’ottimista ama la vita, il pessimista la conosce”. E a una molto forte di uno psicologo, un pensatore spigoloso che si chiamava Ellis: la frase dice “il posto dove più fiorisce l’ottimismo è il manicomio”.
Il pensiero positivo è stata una truffa di massa per creduloni che ripudiano il pensiero e che il giovedì già si dicono “buon weekend”, per un gregge che imposta la vita sull’evasione continua. Un tipo alternativo di routine.
L’essenza del vero pensiero positivo è quella che ha espresso Alex Zanardi. Dopo il famoso incidente di tanti anni fa, lui ha raccontato che, trovandosi senza gambe, ha dato più importanza a ciò che era rimasto piuttosto che a ciò che se ne era andato per sempre. Questo è il vero ottimismo, lo scatto ottimista del pensiero, un ottimismo in cui il cervello ha uno spazio importante.
E comunque il massimo degli aforismi su questa tematica è di Tristan Bernard, uno scrittore francese che ha scritto tante belle cose, tra cui: “Ottimisti e pessimisti hanno un grande difetto che li accomuna: hanno paura della verità”.