di Sergio Fanti
In tutto il mondo stanno aumentando i casi di burn-out. Innanzitutto, che significa questo termine così diffuso negli ultimi tempi? Letteralmente significa “bruciato fuori”. Potremmo semplificare il concetto riportandolo al nostro “esaurimento”. Quando una persona tende a caricarsi troppo di impegni e responsabilità arriva a soffrire di una vera e propria patologia da esaurimento. I sintomi sono scarso rendimento sul lavoro, insonnia, litigiosità, tendenza all’isolamento: è appunto la sindrome da burn-out. Che comprende anche emicranie e mal di schiena. Occorre allora correre ai ripari, parlarne col medico e magari farsi seguire da uno psicologo che riorganizzi la scala delle priorità. Senza mai dimenticare, tuttavia, che le passeggiate nel verde sono un vero toccasana.
Le categorie più a rischio sono le persone che lavorano a contatto col dolore: chirurghi, psichiatri e infermieri. Ma anche altre professioni di trincea, come quella dei poliziotti, soffrono di burnout da frustrazione: è il caso di poliziotti che vedono immediatamente scarcerato chi hanno catturato. La dinamica della non-evoluzione accomuna questi casi: operatori della salute fisica e mentale che lavorano sul dolore cronico (e quindi di improbabile evoluzione), e, appunto, la frustrazione del poliziotto che vede l’inutilità dei suoi sforzi. Andando nella tradizione, potremmo accomunare tutto questo alla depressione della casalinga, che lavora in modo uguale tutti i giorni senza essere gratificata da risultati evidenti.
Il problema burn-out è talmente diffuso che l’OMS lo ha inquadrato tra le patologie. Insomma, è una malattia. L’OMS definisce il burnout “una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo”.
Il nuovo elenco (con burn-out accluso) entrerà in vigore nel gennaio 2022.
(foto tratta da onfuton.com)