Come ho avuto modo di sostenere in altre occasioni, le parole non sempre sono usate per aiutare a capire. A volte, può succedere che, per interessi di bottega, esse vengano usate per mascherare la realtà, per fare cioè da copertura a verità inconfessabili. Sempre più spesso, ascoltando le dichiarazioni di politici e/o economisti, ricevo conferme a questa convinzione che, sia detto per inciso, non è frutto di improbabili teorie complottiste, ma scaturisce dagli studi di autorevoli scienziati della comunicazione.
Questa volta, lo spunto mi è stato offerto da un’espressione caratteristica del linguaggio della politica e, precisamente, dall’espressione “governo tecnico”.
Cerchiamo, preliminarmente, di capire il senso che viene ad essa correntemente attribuito.
Quello che si vuole sottolineare, usandola, è che un governo di questo tipo mette tra parentesi la politica e affronta i problemi analizzandoli senza preconcetti ideologici, governi cioè che fanno quello che va fatto, e quello che va fatto lo decidono figure estranee alla politica, appunto tecnici, di cui si dichiara l’assoluta neutralità. Persone di cui ci si può fidare, perché difendono gli interessi di tutti, quando la politica entra in una sorta di “impasse” da cui è difficile uscire.
Quando ciò accade, di solito, si affida l’incarico di formare un governo ad economisti di un certo calibro.
Ma può l’economia considerarsi una scienza neutra? O, al contrario, è essa una scienza che, diversamente dalle scienze matematiche, si fonda su presupposti che vanno ad incidere pesantemente sulla vita delle persone?
Questa ambiguità era già stata messa in luce da K. Marx, quando, sin dai “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, affermava che l’economia politica classica prendeva le mosse da un assunto tutt’altro che inconfutabile ovvero quello di considerare le forme dell’economia capitalista come forme che non richiedevano di essere spiegate. Infatti, Marx impiegò tutta la sua vita a dimostrare il contrario, attraverso analisi di cui ancora oggi viene riconosciuta la validità e, si badi bene, non solo da economisti marxisti o di scuola marxista, ma da insospettabili studiosi di scuola liberale.
Da ciò credo che possa derivare una prima conseguenza: non esistono governi tecnici. Qualunque governo persegue obiettivi ben precisi che si inscrivono in teorie ben precise e che vanno a colpire categorie sociali ben precise.
Un banchiere che ha al suo attivo un palmares di tutto rispetto, nel quale troviamo incarichi in organismi economici e finanziari che fondano la loro ragion d’essere in un sistema neoliberista, alla cui base sta una teoria del profitto perfettamente delineata, può considerarsi “super partes”? Ritengo che ci voglia una buona dose di disonestà intellettuale per affermarlo.
Si può essere o non essere d’accordo sul fatto che in determinati frangenti sia necessario ricorrere a simili soluzioni, ma vi prego, non si faccia ideologia a buon mercato, nascondendo il reale stato delle cose.
Diciamo, con onestà, che tutte le decisioni che vengono prese da un governo tecnico, obbediscono a logiche che niente hanno a che fare col bene comune, spesso sono solo la premessa di una macelleria sociale alla quale, purtroppo, ci hanno abituati, al punto da convincerci che T.I.N.A., There Is No Alternative!