L’ultimo lavoro dello storico L. Canfora è un breve saggio dal titolo La metamorfosi. Come non riandare col pensiero al racconto del grande F. Kafka ed evitare la tentazione di individuare qualche analogia con la storia del PCI, oggetto del suddetto saggio?
Così come il povero Gregor Samsa si ritrova una mattina trasformato in uno scarafaggio, il povero PCI, dopo lunga agonia, un giorno si trovò trasformato in qualcosa di irriconoscibile. La digressione dello storico risulta essere una esatta fotografia di quello che è accaduto ad un partito che, indipendentemente dal fatto di riconoscervisi o meno, ha perduto l’anima e, con l’anima, la sua l’identità. Non credo superfluo ragionare sul tema dell’identità perché la psicologia e, in generale, tutte le scienze umane continuano, a ragione, a dibattere sull’interpretazione di questa realtà dalle molte sfaccettature, per poi vedere sino a che punto questo dibattito può aiutarci a capire meglio il senso che può avere in ambito politico. Senza arrivare a negarne l’importanza possiamo affermare che possono darsi, in linea generale, due modi di intendere l’identità, una inclusiva e l’altra esclusiva. La prima fa risiedere la sua forza nel tracciare un recinto e stabilire chi sta di qua e chi sta di là. In termini di sicurezza essa sembra offrire il massimo delle garanzie.
Questa interpretazione non ama la commistione, ragiona in termini di bianco e nero e odia le sfumature per il solo fatto che la loro accettazione comporterebbe una riflessione sulla complessità, per comprendere la quale bisogna attrezzarsi di strumenti che, pur essendo, a volte, alla portata, richiedono una fatica che non sempre si è disposti ad affrontare.
La seconda accetta la sfida della complessità e non ha paura di confrontarsi con l’altro, convinta che questo è l’unico modo di mantenere e, perché no, forse anche rafforzare la propria identità. È una strada impervia perché espone al rischio di una riflessione che non si sa dove può condurre, anche perché le sfumature, per la loro intrinseca caratteristica, hanno bisogno di occhi attenti ed allenati.
Cosa bisognava, allora, includere e cosa escludere per non perdere l’anima?
Ecco, forse era questa la domanda che doveva essere posta qualche decennio fa, quando anziché svendere i propri gioielli si sarebbe dovuto decidere da che parte stare. Apparentemente la parte era chiara: gli ultimi, chi aveva tutto da perdere con un sistema basato su una deregulation generalizzata, gli operai, i diseredati, e, perchè no, anche un ceto medio disorientato. Ma quando la politica diventa puro gioco di potere vince chi detiene le leve più importanti, ovvero quella dell’economia e, in seconda istanza, quella dell’informazione. Anziché andare al confronto, e se necessario allo scontro, proponendo un modello di sviluppo alternativo, si è preferito assecondare i poteri forti che, intanto, approfittando di questo inatteso regalo, hanno cominciato a plasmare gusti, idee e desideri delle masse. Opporsi strenuamente alla finanziarizzazione dell’economia, per esempio, avrebbe di certo consentito di serrare le fila e confrontarsi sulle scelte più giuste e più eque socialmente, non per fare la rivoluzione, ma per evitare quegli squilibri che avrebbero poi condotto alla morte del sogno di una società più giusta. Si poteva pure perdere, ma almeno si era combattuto.
Cos’altro si poteva includere? Per esempio il ceto medio, quello impiegatizio in particolare, lasciato alla mercé dei partiti di centro e di destra quando lì si annidava, a volerlo vedere, un esercito di futuri poveri che avrebbero, negli anni a venire, dovuto sopportare un brusco quanto inaspettato ridimensionamento del loro stile di vita, mentre i già ricchi continuavano ad accrescere i loro patrimoni.
Ma una battaglia in particolare meritava di essere inserita nell’agenda di un partito che era di massa, quella all’evasione. E invece si è preferito strizzare l’occhio agli evasori che hanno approfittato dell’acquiescenza di tutte le parti politiche per continuare a frodare lo Stato, cioè i cittadini che pagano le tasse. Perché, alle volte, gli slogan più rivoluzionari sono quelli di maggiore buon senso: pagare meno, pagare tutti!
Una certa ingenuità ha fatto sì, poi, che, col politicamente corretto, si perdesse di vista la realtà, accettando di non chiamare più le cose col loro nome. È accaduto così che, non annusando il tranello che si stava preparando, si è lasciato campo libero a chi aveva tutto l’interesse a tacciare di populismo quelle legittime istanze popolari che non trovavano alcuna rappresentanza presso i partiti che storicamente se ne prendevano cura, cosicché in tanti hanno cominciato a disertare le urne o sono finiti fra le braccia dei partiti di destra che hanno saputo intercettare, con un linguaggio a volte rozzo, il serpeggiante malcontento.
Cos’è mancato ancora? Il non avere più creduto, nella funzione pedagogica dei partiti politici, facendo il gioco, in questo modo, di chi, dichiarandone la morte, ha approfittato di questo vuoto per sciogliere tutto in una marmellata immangiabile. Era lecito, infatti, sospettare che il dibattito sulla morte delle ideologie fosse quanto di più ideologico si potesse escogitare per elevare il sistema neoliberista a unico modello possibile di società.
E, giusto per riprendere da dove avevo cominciato dirò che, a differenza di Gregor Samsa la cui principale preoccupazione era quella di non potere, nella nuova condizione di insetto, ottemperare ai suoi doveri, l’attuale partito, che non ha più un senso definire erede del PCI, non si pone nemmeno la domanda se ha un dovere nei confronti di un elettorato che si è sentito tradito nell’affetto più caro: la giustizia sociale.