Torno malvolentieri a parlare delle parole. Malvolentieri perché, nonostante Don Milani, ancora c’è chi crede che le marcate disuguaglianze sociali siano ineluttabili, o, meglio che siano da imputare all’individuo che, se non è riuscito a farsi strada nella vita è solo perché non ci ha saputo fare, quando, invece, è abbastanza chiaro che è la cultura, e ancora più precisamente il possesso di un’adeguata conoscenza della lingua e di un elevato numero di parole, a garantire quel diritto alla cittadinanza attiva di cui sono pieni Agende europee e documenti riguardanti la scuola, educazione civica compresa. Bastava leggere Lettera a una professoressa!
Non è un caso che l’Italia si trovi in basso nella classifica europea sulla competenza relativa alla comprensione di un testo. Ma su questo fronte, tutto tace.
Dopodiché, se volete, potete continuare a credere nel potere taumaturgico di sistemi di valutazione tipo INVALSI.
Posta questa premessa, mi tocca spiegare il titolo di questo articolo, e l’apparente innocenza delle trasformazioni cui è stata sottoposta la sanità italiana, a partire dagli acronimi che la identificano.
Correvano gli anni Ottanta, correvano così velocemente che si lasciavano dietro buona parte della popolazione italiana che, da lì a poco, avrebbe assistito impotente alla drastica riduzione dei servizi prima erogati gratuitamente. Erano gli anni in cui M. Thatcher e R. Reagan dettavano le leggi dell’economia neoliberista, fatta di privatizzazioni e di massimo contenimento della spesa pubblica. L’Italia tardò un poco, ma nel 1992 con una semplice sostituzione di una vocale le Unità Sanitarie Locali diventarono Aziende Sanitarie Locali. Fu così che il cittadino italiano poté sperimentare sulla propria pelle che Azienda non era una parola buttata lì a caso, ma che era stata messa lì per consentire il passaggio ad una gestione della salute dei cittadini secondo le ferree regole della gestione aziendale. Era l’applicazione del New public management, teoria con la quale si applicavano ai servizi pubblici le regole e i criteri organizzativi propri del management, per cui la produttività e l’efficienza diventavano i parametri per valutare il corretto funzionamento dell’azienda. E giù, a cascata, chiusura di interi ospedali, drastica riduzione della spesa, e via per questa china, con cittadini che da allora rinunciano alle cure per le ridotte disponibilità economiche, rese, oggi, ancora più marcate, sia in seguito alla crisi che ci trasciniamo dietro dal fallimento delle grandi banche del 2008, sia, e questa è attualità, per le difficoltà economiche che molti stanno sperimentando nel paese, a causa della pandemia in atto.
L’altra conseguenza di questo cambio di paradigma è la severa disciplina cui vengono sottoposti i dipendenti pubblici, che impedisce loro di criticare la gestione della struttura presso cui lavorano, per esempio di denunciare le carenze del servizio sanitario, perché, ora, a tutela della nostra salute c’è un manager che gestisce la spesa seguendo una logica aziendale!
A onor del vero vi erano stati, nel corso dei decenni precedenti, sprechi che avevano reso insostenibile la spesa per la sanità, ma come sempre accade in questi casi, anziché colpire in maniera mirata gli sprechi, la politica neoliberista percorreva la strada più semplice, la scorciatoia che penalizzava gli utenti/pazienti, rendendo felice il settore privato che, con l’acquolina in bocca, osservava compiaciuto come la politica ubbidiva, più o meno consapevolmente, ai suoi desiderata. Slurp, slurp, appunto!
Ora, non chiedetevi cosa resterà di questi anni ’80, perché una, adesso, la conoscete: il frutto avvelenato della aziendalizzazione della sanità pubblica!