Se la democrazia è partecipazione, allora qualche riflessione sullo stato dell’arte è d’obbligo. La notizia che due francesi su tre non si sono recati alle urne la dice lunga sul disamore dei cittadini per la politica. Qualcuno deve fare meaculpa? Forse sì.
Come leggere, allora, questo sconfortante dato? Quale legittimità può derivare al potere da una partecipazione così bassa alla vita di un paese? Ma la domanda che, più di altre, dovrebbe preoccupare è: siamo sicuri che questo dato impensierisca veramente chi governa? In una società in cui le decisioni non vengono prese dai Parlamenti ma dai detentori dei poteri economico-finanziari, ha forse importanza se a votare siano il 70 o il 30% degli aventi diritto? È, infatti, già da qualche decennio che le decisioni dei cittadini vengono disattese, ricorrendo a discutibili e per nulla democratici escamotage, miranti ad aggirare la volontà popolare. Gli esempi non mancano. Basti ricordare quanto accaduto in Grecia quando il popolo, pur avendo votato contro la decisione di Tsipras di permettere alla Troika di insediarsi nei palazzi del potere, ha visto disattesa la sua scelta. È stata questa l’ulteriore conferma della teoria del cosiddetto pilota automatico, espressa dall’allora presidente della BCE, Mario Draghi: qualunque siano le scelte dei cittadini, quello che va fatto è indipendente dalle decisioni che prendono gli elettori.
Posto questo precetto, ci si stupisce se i cittadini, fiutato il tranello, disertino le urne?
Ma, a volte, chi governa, non sempre ha il polso della situazione, se è vero che, a detta di molti economisti, in autunno potrebbe esplodere la protesta sociale.
Che il sistema sia al capolinea è poco credibile. Anzi, questa protesta, cavalcata in massima parte dalle forze politiche di destra ed estrema destra, potrebbe favorire soluzioni autoritarie per nulla sgradite alla componente più agguerrita del sistema neoliberista, che vede come polvere negli occhi qualunque prospettiva che richiami, anche lontanamente, idee di giustizia sociale, che porterebbero necessariamente a politiche di riduzione e/o contenimento dei profitti.
L’avere, poi, da parte di tutte le forze politiche, demonizzato la protesta, tacciando di populismo qualunque contestazione al sistema vigente, ha impedito di cogliere il reale malcontento delle masse popolari, che hanno espresso il disagio economico e sociale o premiando i partiti di destra o rifiutando di partecipare al rito, ormai consunto, delle elezioni.
L’afasia e la cecità delle forze di sinistra ha fatto il resto. In assenza di una efficace rappresentanza delle istanze dei ceti più colpiti dalla crisi, la diserzione delle urne ha rappresentato il modo più semplice per le masse di manifestare la rabbia contro una politica ridotta a gestione degli affari dei potentati economico-finanziari. Quale futuro ci attende è difficile dirlo. Di certo, non sono all’orizzonte ravvedimenti rispetto alle politiche economiche austeritarie. La finta solidarietà dimostrata dall’Europa in questo periodo di crisi, rivelerà tutta la sua ipocrisia da qui a poco. Già si vedono i primi segnali da parte di autorevoli esponenti della nomenklatura dell’UE, i quali, da un lato, hanno bacchettato il nostro paese intimando di eliminare le norme che hanno bloccato i licenziamenti e, dall’altro, hanno ripreso a sostenere la necessità di un pronto ritorno al rispetto del Patto di stabilità e crescita. Sarà una lenta agonia?